“Tutti i figli di dio danzano” di Murakami Haruki
di Francesca Solito / 19 ottobre 2010
«Un conto è capire una cosa, un conto è riuscire a cambiarla dandole una forma visibile». È quello che scrive Haruki Murakami nel libro “Tutti i figli di Dio danzano” [titolo originale: Kami no kodomotachi wa minna odoru], ed è ciò che questo autore riesce a concretizzare in ogni suo scritto, dando forma alle parole quasi fosse uno scultore che, nel guardare la materia, vede la figura che vi è nascosta e le dà forma.
Tutti i figli di Dio danzano è una raccolta di sei racconti brevi, tipici della letteratura giapponese moderna contemporanea, uniti da un unico filo che collega ogni singola storia: il terremoto di Kobe del 1995, un trauma collettivo, rimasto impresso nella memoria del Giappone . Solo accennato, nessuna vittima viene ricordata, tutte restano anonime. Ma la sensibilità di Murakami riesce ad andare oltre. Non si tratta di un detto non detto, di qualcosa di oscuro, sibillino, inafferrabile: c’è solo silenzio. Il silenzio di Kushiro, il protagonista del racconto che apre la raccolta, che continua ad aspettare il ritorno di sua moglie. Il silenzio di Junko e Miyake, personaggi del secondo racconto che, guardando il falò, vorrebbero accettare tutto, senza dover dire una parola, inglobare e perdonare ogni cosa, essere liberi. Il silenzio di Yoshiya che è stato abbandonato e ha abbandonato lui stesso suo padre; un silenzio, il suo, che lo porterà a danzare ma senza musica, come un filo d’erba e una nuvola che fluttuano nell’aria e a cui non occorrono melodie – ed è questo il racconto che dà il titolo alla raccolta -. Il silenzio della dottoressa di “Thailandia”, che decide di tacere poiché, come dice il suo nuovo amico Nimit, le parole diventano pietre cariche di odio, un odio che può portare una donna a sperare in un terremoto e a farla morire. Lo stesso terremoto, viene paragonato a un ‘Gran Lombrico’ nel racconto “Ranocchio salva Tokyo”: ricorre all’interno della cultura orientale, infatti, la credenza secondo cui questa catastrofe naturale è la conseguenza di un odio assorbito nel corso del tempo, di un male che, come il bene, fa parte tuttavia della vita, e ne rappresenta l’opposto complementare. Infine, il silenzio di Junpei, un intellettuale giapponese dell’era Taisho che, non riesce a esprimere a parole il suo amore nei confronti della bella Sayoko, un uomo che davanti al terremoto tace, e si accorge di non avere radice, poiché proprio Kobe una volta era la sua terra, cancellata dai suoi ricordi e poi riemersa improvvisamente con una scossa. Davanti il televisore: su uno schermo piatto, le vittime del terremoto. Possono solo aspettare di essere salvate in un modo o nell’altro. Ma quel che è accaduto, è accaduto. E l’atrocità è proprio questa.
Murakami, scrittore contemporaneo cresciuto a Kobe, ci sorprende ancora e, questa volta, non con un romanzo come Norwegian Wood, Tokyo Blues o Kafka sulla spiaggia, ma con dei racconti: immagini e parole condensate al massimo. D’altronde, lo afferma l’autore stesso ne L’arte di correre , autoritratto dello scrittore-maratoneta, è questo il suo dovere: concentrarsi nella scrittura, scrivere opere di un certo valore che i suoi lettori avrebbero accolto con gioia. I lettori e gli autori non possono guardarsi ma possono stabilire tra loro una relazione che possiamo definire ‘concettuale’ che, anche se invisibile agli occhi, è qualcosa della massima importanza che ha molto, come dire, di umano.
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