Per la morte di un poeta
di Dario De Cristofaro / 2 novembre 2010
Credo fosse il 2 novembre del 1995. Erano passati già vent'anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini. Ovviamente all'epoca io, poco più che tredicenne, non sapevo minimamente chi fosse costui. Ricordo però che rimasi colpito da un servizio del Tg1 delle 20 di quel giorno: si parlava di questo poeta, uscito di casa e ritrovato morto la mattina dopo, all'idroscalo di Ostia, massacrato e reso un grumo di sangue. Ricordo anche che il cronista si limitava a definire l'accaduto come un semplice omicidio di ambiente omosessuale, sottolineando, più per dovere di cronaca che per un dubbio reale, l'alone di mistero che, malgrado gli anni, continuava ad aleggiare intorno alla drammatica vicenda. Ricordo ancora che pensai di non aver capito molto, in definitiva, della faccenda, ma rimasi comunque colpito dal fatto che qualcuno avesse potuto massacrare così un poeta. Già, un poeta, l'immagine sacra del poeta, come ricorderà lo stesso Alberto Moravia, nella sua celebre orazione funebre per l'amico scomparso.
Dopo di allora non mi capitò per un bel po' di imbattermi di nuovo nel nome di Pier Paolo Pasolini. Almeno fino agli anni dell'università. Pasolini, infatti, come anche Sandro Penna, Dario Bellezza o Attilio Bertolucci, difficilmente riescono a farsi strada tra i banchi dei licei, esiliati come sono in quel comune non luogo della poesia del Secondo Novecento. Lui, il grande intellettuale e poeta Pier Paolo Pasolini, il cui nome Giorgio Caproni definì «uno e trino».
Fu dunque quando arrivai a Roma per studiare all'università che feci il mio vero incontro con Pasolini: sarà stata la medesima sorte di approdare in una città tanto diversa dalla provincia da cui provenivo, oppure la fortuna di iniziare gli studi universitari proprio in quegli anni in cui si cominciava a celebrare la sua figura di intellettuale e artista, ormai alle soglie del trentesimo anno dal suo omicidio. Sta di fatto che, da subito, cominciai ad appassionarmi a lui, alla sua storia, al suo pensiero, persino ai suoi film, al punto da “andarlo a trovare” fino a Casarsa, là dove adesso riposa, a fianco dell'amata madre, poco distante dallo sfortunato fratello.
Oggi, giunti al trentacinquesimo anno dalla sua morte ancora non si è fatta chiarezza su come andò veramente quella tragica notte. Ma come sottolinea giustamente Fulvio Abbate, nell'intervista video rilasciata proprio a Flanerí, ormai non importa sapere come si svolsero i fatti. Ciò che conta e che rimane è l'amara consapevolezza dell'immenso vuoto che Pasolini ha lasciato con la sua morte. Un vuoto culturale, civile, politico. Un vuoto incolmabile e mai colmato. Un vuoto buio, triste, senza via d'uscita.
Proprio perché sentiamo enormemente questo vuoto, la sua assenza, orfani come siamo della sua lucidità intellettuale, Noi di Flanerí abbiamo deciso di dedicare il numero odierno interamente al poeta bolognese, cercando di celebrarlo a tutto tondo, per quanto ci è possibile, con la speranza finale che possano tornare presto, in questo paese così martoriato dalla stupidità e dall'opportunismo, dal buonismo sfrenato e dall'ipocrisia, personaggi di una tale, indispensabile caratura intellettuale.
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