Conversazione con Cecilia Vedana
di Luca Casadio / 29 marzo 2011
Cecilia Verdana, autrice del toccante libro A dieci centimetri dal cuore, ha concesso un'intervista a Flanerí, un modo per far conoscere ulteriormente la sua storia di coraggio e determinazione.
La prima domanda potrebbe sembrare marginale, ma così non è, almeno a mio avviso, e riguarda il tempo: quando ha scritto questo libro? E quando ha pensato di farlo per la prima volta? Quando ha deciso di realizzarlo così com’è?
Ho iniziato a scrivere “A dieci centimetri dal cuore” a più di un anno e mezzo dall’inizio di questa storia. Forse sarebbe meglio dire un anno dopo la fine delle cure. Neppure ero consapevole di voler raccontare questa mia esperienza, ma ora, voltandomi indietro, mi accorgo che, dopo quell’anno difficile, durante il quale mi sono curata, avevo forse già iniziato questo percorso che ha visto, nella scrittura e nel modo in cui lentamente stavo elaborando quanto mi era accaduto, le sue prime tappe.
Le ho posto la domanda precedente perché, dal suo libro, ho avvertito, concretamente, il peso, l’importanza delle parole. La necessità di avere accanto, nel dubbio della malattia, qualcuno che possa capirti e dire esattamente che cosa ti aspetta. Che possa starti accanto conoscendo il percorso che ti attende. Oltre ad essere un buon romanzo, ha mai pensato che il suo libro possa parlare anche a chi si troverà un giorno di fronte ad una diagnosi del tutto simile alla sua? Oppure è un libro rivolto a chi non ne sa nulla? Che deve rivolgersi a chi non ha familiarità con il tumore al seno?
Il mio libro racconta la storia di una donna qualsiasi. Una storia come quella di molte altre. La voce narrante diviene la voce e l’esperienza delle donne in rosa, che nelle pagine di questo libro rivivono la loro storia, le loro emozioni.
Il libro nasce dalla gratitudine, sentimento creativo e propulsivo. Il libro è indirizzato a chi lo vedrà, lo prenderà in mano e lo leggerà, a chi lo amerà, a chi ne avrà paura e soprattutto a coloro che chiudendolo, dopo averlo concluso, sorrideranno.
La sua scrittura è leggera, veloce, per immagini, per associazioni, e rende benissimo le sensazioni del momento, l’attimo, e le caratteristiche essenziali delle vicende che ha attraversato. Questo stile è il suo? L’ha scelto apposta per descrivere proprio quest’esperienza? O, invece, l’ha trovato quasi per caso?
Lo stile è una ricerca. Un percorso che, chi scrive, sperimenta, incontra, adotta perché in quel preciso momento è la sua unica voce, l’unica scelta possibile.
Quando dice che mi esprimo per immagini e per associazioni, penso che lei abbia ragione. Allora mi dico che questo è stato il mio primo modo di esprimermi, dovuto a una personale inclinazione ad osservare la realtà, in disparte, spesso in silenzio. Osservando la realtà la si plasma, la si modella, rendendola, a volte, linguaggio espressivo.
Verso la fine del libro, ormai in fase di guarigione, la protagonista casualmente vede per televisione una manifestazione in favore del cancro al seno. Descrive una maratona in cui corrono solo donne interamente vestite di rosa; le donne che hanno sconfitto la loro malattia. Il suo libro, secondo lei, è una testimonianza come quella? Oppure deve essere considerata come una storia privata, unica, solamente sua? E come si potrebbero, se possibile, unire queste due cose?
Perché scrivere di un argomento così delicato, così personale, se non si ha la consapevolezza che esso può avere una valenza universale? Il mio libro è anche una testimonianza, come quella di tutte le donne in rosa, ma è soprattutto un regalo, un omaggio alle donne guerriere, al loro coraggio, al loro valore.
Dice Emile Cioran, in un suo aforisma: “La malattia, accesso involontario a noi stessi, ci assoggetta alla profondità, ci condanna ad essa. Il malato? Un metafisico suo malgrado”. Se questa frase è vera, secondo lei qual è il rapporto, se ce n’è uno, tra malattia e letteratura?
La malattia è paradossalmente una possibilità. E’ l’occasione, passatemi il termine, per rileggere, per conoscere, per elaborare. E’ una condizione di debolezza, di limitatezza che chiede rispetto, riconoscimento, decoro. Il malato è un metafisico, sì. Ma non “suo malgrado”. Se per metafisico intendiamo ciò che va oltre il momento di disperazione, di sofferenza, se per metafisica intendiamo la capacità di vedere il bello dove non c’è, il sole dove ancora cade la pioggia.
Staccarsi da sé, dalla malattia, può essere l’inizio di un nuovo percorso che mai avremmo immaginato.
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