Su Bellezza
di Roberto Deidier / 31 marzo 2011
Un po' di genealogia. Il lettore che si trovi ad aprire Testamento di sangue – una delle opere di Bellezza che maggiormente testimoniano della teatralità insita nella sua scrittura poetica – s'imbatterà in una dedica falsamente rivelatoria: «A Pier Paolo Pasolini e Sandro Penna miei amici e maestri». Le ascendenze, in questo testo apparso nel 1992, sembrerebbero così finalmente dichiarate, nonché accettate. Sono, non a caso, tra i nomi sui quali la critica ha più spesso insistito a proposito della genesi di questa poesia, nomi talvolta sconfessati dallo stesso autore. Nulla da eccepire sul primo termine: quell'amicizia, infatti, appartiene già alla storia della poesia di fine Novecento. Ma fino a che punto Pasolini e Penna hano esercitato un reale magistero sul giovane poeta che comincia sparsamente a pubblicare nei tardi anni Sessanta, infine esordisce in poesia con le Invettive e licenze del 1971?
Si può rintracciare una delle possibili chiavi di interpretazione del rapporto con questi fratelli maggiori, mai eletti al rango di veri e propri "padri", nella modulazione del paesaggio. Sappiamo che in Penna, ad esempio, la realtà è trasfigurata nella fattispecie di un «confuso sogno» e che questa è una delle sigle attraverso cui il mondo si lascia cogliere impressionisticamente. Non è soltanto un sogno del soggetto lirico, ma una proiezione mitica, metastorica: la realtà di Penna è anche «un sogno confuso degli dèi», mentre in Bellezza l'esperienza onirica, pure presente, mantiene un fondo di concretezza, e così il paesaggio, mai trasfigurato, piuttosto deformato da un'espressività accesa. Bellezza, Penna, Pasolini sono gli ultimi flâneurs della poesia italiana e i loro luoghi eletti si contengono tutti entro un'unica, stessa cornice: Roma. Tra il Testaccio delle Ceneri di Gramsci e il Monteverde della Religione del mio tempo, la città si afferma e si mostra: persino da lontano, «riapparizione poetica», luogo anfibio di vita e dannazione. Eppure in Pasolini questo paesaggio urbano è la controparte di una dimostrazione, ha un valore tutto strumentale: serve a segnare il discrimine della «mutazione antropologica», è il confine – specie se ci si sposta verso le borgate e le periferie – tra l'«età del pane» e la modernizzazione. La funzione di questo paesaggio è ora critica, ora evocatrice di una subdola forma di nostalgia. In Bellezza, invece, il paesaggio è ciò che è. Solo qua e là diviene correlativo oggettivo: ne cogliamo il segnale, come voleva Barthes, soprattutto attraverso l'immaginario espresso da certi aggettivi (da Serpenta: «assorto tramonto di speranze», «il sole funesto / e sporco di un pomeriggio invernale»); invece Campo de' Fiori, Via dei Pettinari sono luoghi oggettivi, toponimi che individuano il recinto di un'esistenza destinata in seguito, per via di poesia, a costruirsi come un'autobiografia mitica, né diretta né lineare, ma rovesciata di segno, nella cantilena, nel delirio ritmico dell'auotcritica, dell'autodenigrazione, dell'ironia e del grottesco.
La poesia è per Bellezza un grande contenitore esistenziale che ingloba, assimila, richiama a sé – senza mai riscattarle – scrittura e vita. Anche la sua prosa, e quindi il suo teatro, nascono all'insegna di una proiezione autobiografica, sono una diversa specie della poesia lirica: ovvero qualcosa di assoluto che ci rinvia continuamente al confronto con noi stessi, con l'io che scrive e si pronuncia in quanto soggetto. Non si tratta di affermazioni scontate, per l'opera di Bellezza: nelle sue pagine è proprio quest'ultimo, il soggetto, ad amplificarsi nell'eco di più proiezioni, a rivestirsi di diverse psicologie, inscenando istrionicamente un dramma complesso. L'io non è, in definitiva, un'entità esclusivamente autoriflessiva, ma, in perfetta contiguità fra teatro e poesia, si presenta sotto le spoglie di un vero e proprio personaggio. La sua stessa voce diviene una sorta di maschera ritmica attraverso il lamento, l'ossessione del peccato che attrae e poi provoca il senso di colpa. Anche questa dinamica non è così scontata in Bellezza, ma è vissuta all'insegna di un cattolicesimo stravagante: la religione è norma e alibi, polo di tensione, luogo di una catarsi sempre rinviata e sostituita da una discesa agli inferi che non può avere alcun potere purificatorio, ma che incarna, sulla pelle stessa del flâneur notturno, la coazione alla nemesi. Il placet experiri di oraziana memoria – il tranquillo abbandono, venato d'epicureismo, al flusso dell'esperienza – si è infatti rovesciato nella mimesi di una tragedia, nell'inevitabile riproduzione di un dramma che si svolge in più fasi, l'una necessaria e conseguente all'altra. Non è difficile, per chi abbia frequentato anche solo parzialmente la scrittura di Bellezza, comprendere le ragioni più autentiche di questa rappresentazione e individuarne i vari momenti, proprio a partire da quelle «licenze» che contengono in sé, già nel libro d'esordio, l'altra dimensione dell'«invettiva» e dell'eversione.
All'origine di questa scrittura sta un movimento binario, divergente, segnato dalla contraddizione e dall'irresolutezza, per le quali il succedersi del riscatto alla colpa, della colpa al peccato è sempre relativo, effimero, destinato a soggiacere nuovamente alla volontà e al soddisfacimento del desiderio. Di un desiderio di per sé eversivo, fuori norma, nemmeno estetizzabile; di un desiderio che corrode dall'interno la finta compattezza della polis ed è, pertanto, antipolitico. Il suo scandalo, rispetto al modello pasoliniano, si pone al di qua di qualsivoglia confronto sociale: ancora una volta è la matrice cattolica ad imporsi, a far implodere l'eversività sul piano della coscienza individuale, ovvero all'interno di una soggettività che non riesce a chiudere i conti con se stessa, ma si costringe alla maschera. Il peccato, nel momento stesso in cui è superato dal desiderio, si riduce a una recita tutt'altro che solitaria: dall'altra parte del palco, viene incontro al poeta la figura più invocata, antagonista e insieme liberatrice. Assistiamo a un lungo, incessante dialogo con la Morte, o – richiamando uno degli ultimi titoli – con L'avversario.
La poesia di Bellezza è soprattutto la storia di un corpo. È una scrittura fisiologica, che procede parallelamente ai mutamenti prodotti dal tempo e s'intride di una percettività forte, animale, nei confronti dell'esterno, dell'altro-da-sé. Come l'altro sia raggiunto è presto detto: quella di Dario è una corporalità poco novecentesca, e poco novecentesco appare anche il suo sentimento del dolore: vi traspare un atteggiamento tutto suo (tranne laddove lascia agire quella corda approssimativamente "civile" che lo fa scagliare contro le ipocrisie borghesi), un atteggiamento che non rimanda ad alcun cliché esistenziale o storico. Verso la colpa e il dolore la posizione di Bellezza – e di Bellezza personaggio della sua poesia teatrale – è sostanzialmente ambigua. Il vero narratore che racconta dietro la maschera sorride di un sorriso beffardo e indecifrabile, enigmatico come quello dell'Apollo di Veio. Siamo al verso proemiale di tutta la lunga rappresentazione che si conduce attraverso otto raccolte: «Ma non saprai giammai perché sorrido». È la posizione di chi si presenta sul palco, fin da questa prima battuta, come «il pedante Amleto / della più consolatrice borghesia», lui, il poeta piccolo-borghese che nella propria origine non può e non vuole trovare riparo. Perché «consolatrice» è anche un lapsus per «conservatrice» e l'opera consolatoria del nucleo d'origine non poteva che volgersi alla cancellazione di tutta l'autentica inquietudine che è della vita stessa: a obnubilare, confondere, dissimulare, con le parole di Shakespeare, «la certezza di che cosa è un uomo».
Dietro l'amletica ambiguità di questo poeta, del suo non risolto rapporto con il peccato e il desiderio, sta il grande enigma della Natura, delle sue pulsioni e delle sue metamorfosi. Ciò nonostante non è richiesto l'intervento di un lettore-Edipo, disposto a scioglierne il mistero: tutta la poesia di Bellezza lascia individuare il senso del suo dolore, come sciogliendosi in una lunghissima risposta al sorriso di quel primo verso, programmatico e paradigmatico. E già nella chiusa di quel primo testo si era chiamati a fronteggiare, fin da subito, la morte. Il dolore e la morte non sono stati per Bellezza un'occasione o un motivo puramente letterari, nonostante l'atteggiamento di fondo sia e resti per certi aspetti barocco. Nella sua scrittura agiscono due tensioni opposte, eppure riconducibili a uno stesso nucleo: lo stupore e la paura, che a loro volta si contengono nella meraviglia. Una meraviglia che è spaesamento, straniamento, fuoriuscita da sé, e che contiene quindi al suo interno la tema classica, quell'improvviso scarto dalla percezione ordinaria del mondo che leggiamo nelle prospettive deformate di un dipinto manierista.
È la meraviglia del confronto con l'altro-da-sé: da questo punto di vista Bellezza ha creato inconsapevolmente – e questo è un ulteriore attributo di certezza per la sua poesia – una sorta di cortocircuito tra la meraviglia del passato e la meraviglia del moderno. Nella sostanziale continuità tra umano e naturale, il passato poteva percepire la meraviglia non come uscita dal soggetto, ma proprio come uscita dal mondo, come rottura di una legge generale del cosmo: la discesa all'Ade, ad esempio. Nel moderno, quando la comunione tra umano e naturale è ormai una condizione confinata nelle più lontane regioni del mito, alla discesa agli inferi si è sostituita la meraviglia, e perché questo accadesse è stato sufficiente, invece di uscire dall'universo chiuso, conosciuto e storicizzato, rovesciare l'immagine del mondo che il soggetto occidentale aveva costruito. Così nella poesia di Bellezza s'impone, nonostante l'impressione del dérèglement rimbaudiano e della deriva – questa sì novecentesca – un'architettura, un logos corporale che cresce a dismisura su se stesso secondo un flusso viscerale inarrestabile. È un fiume che diventa, sulla pagina, l'analogo di una cuspide barocca: miracolosamente in bilico, per noi, in realtà tenuta sapientemente in piedi da equilibri certi quanto segreti. Come quelli della Natura.
Bellezza è andato incontro all'altro-da-sé accompagnato da un costante sentimento della caducità. L'altro-da-sé, il corpo ora complice ora mercenario, si è trasformato nell'«avversario», è divenuto uno strumento di morte: ha aderito totalmente alla sua natura drammaturgica e ha lasciato, da antagonista, che il protagonista avvolgesse il narratore che gli stava dietro. Caduta la maschera e scoperta l'identità tra personaggio e poeta – svelato, insomma, l'enigma del sorriso – a quest'ultimo, al poeta, non è rimasto che verificare nello specchio ampio e sicuro del tempo a cosa veramente corrispondesse la propria immagine. «Non guardare fuori dello Specchio», lo specchio del «gran teatro» della Natura: «lo sguardo – ammonisce Bellezza – punisce chi guarda», lo rimanda a un altrove, passato o futuro, irraggiungibile. Ancora il monito di una punizione, che è la visione della verità stessa della condizione umana, del suo drammatico presente: «vedere è vedere / vivere è vivere, / prima di chiudersi allo spavento / il sibilante spavento». L'esperienza è al di qua della consapevolezza, ed entrambe sono prima della chiusura imposta dalla morte. Ex abrupto si è compiuta l'estrema discesa verso l'Ade, ovvero in quell'abisso della verità che solo i poeti rimasti al di qua della storia, per sempre coinvolti nell'ambiguità della Natura, possono percorrere.
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