Signora Ava
di Chiara Gulino / 2 aprile 2011
Come è possibile che uno dei romanzi più importanti della nostra storia risorgimentale e della letteratura italiana del Novecento sia finito per tutti questi anni nel dimenticatoio?
Uscito nel 1942 e poi nel 1967 nella collana pedagogica della Einaudi a cura della moglie Dina Bertoni, Signora Ava di Francesco Jovine (1908-1950) esce ora in una nuova edizione Donzelli per iniziativa di Goffredo Fofi che ne firma l’introduzione in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Frutto di una lunga gestazione (Jovine lo terminò nel 1929, ma fino alla pubblicazione lo sottopose a un pervicace lavoro di revisione al fine di far aderire la materia trattata al giusto linguaggio), il romanzo è ambientato a Guardalfiera, una cittadina del Molise di 2000 anime e 10 preti, alla vigilia dell’Unità d’Italia e alla fine del regno borbonico. La “Signora Ava” del titolo non è un personaggio ma una figura leggendaria del folclore molisano, un simbolo di tempi lontani, passati per sempre, quasi favolosi.
Il romanzo è diviso in due parti, entrambe composte da 15 capitoli non numerati. Nella prima parte è descritta la vita quotidiana del piccolo borgo, che scorre placida, scandita dai ritmi della terra, tra occupazioni contadine, beghe di paese, storie che si intrecciano mentre le notizie del mondo esterno giungono solo di rado, approssimative e distorte. Lo scenario è quello della grande casa della famiglia de Risio, i piccoli feudatari locali. Al centro c’è don Giovannino, detto il Colonnello, direttore e insegnante della scuola privata frequentata dai rampolli della zona. Protagonisti sono però Don Matteo, un prete di campagna, contestatario e dai tratti poco canonici, inviso ai sacerdoti del circondario, che qualcuno ha voluto accostare a Don Abbondio, ma del quale si discosta per una maggiore volontà, e Pietro Veleno, un giovane contadino e “servo” della famiglia de Risio, orfano di padre e innamorato della coetanea Antonietta de Risio. Il loro sembra tuttavia un amore impossibile, date le differenze sociali: Pietro fa parte della categoria dei “cafoni” mentre Antonietta di quella dei “galantuomini”.
Nella seconda parte la Storia irrompe nel racconto, movimentando e sconvolgendo il ritmo pacato di vita degli abitanti di Guardalfiera. Si ode l’eco lontana dell’impresa dei Mille di Garibaldi, mai menzionato. Si sa solo che c’è la guerra di un re “straniero” che combatte contro Francesco I di Borbone. Molti giovani partono, anche Pietro Veleno e un suo compare Carlo Antencci, unendosi alla banda dei ribelli guidata da Sergentello, un soldato del disciolto esercito borbonico, che combatte la Guarda Nazionale piemontese. Pietro impara a uccidere, rubare, saccheggiare persino un convento dove ritrova Antonietta. La conduce con sé. La promiscuità indotta dalla vita banditesca porta a compimento l’amore tra i due giovani che sperano di poter fuggire e raggiungere il franco Stato Pontificio. Ma intanto l’esercito piemontese avanza inesorabile.
Condotto dal punto di vista dei paesani, che nulla sanno di quel che accade oltre i confini del proprio territorio, il romanzo rievoca in chiave favolosa un’epoca antica nella quale affondano le radici i problemi storici e sociali che hanno travagliato e tuttora travagliano il Meridione, in una scrittura frammentaria di ascendenza verghiana che però risente della contemporanea vague neorealista.
La grandezza di Jovine, figlio di un agrimensore emigrato in Argentina, sta nel mostrare la casualità della Storia, secondo la lezione di Tolstoj, nella quale i personaggi vengono travolti dai fatti. La stessa ribellione di Pietro Veleno, a differenza di Luca Marano, protagonista dell’altro romanzo, forse più noto, dell’autore, Terre del Sacramento, non deriva da una maturazione politica e sociale, ma da circostanze esterne, estranee alla sua volontà.
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