“L’ora migliore”. Conversazione con Simone Ghelli
di Matteo Chiavarone / 27 maggio 2011
Intervistiamo Simone Ghelli, autore di “L’ora migliore” (Il foglio, 2011), una raccolta di racconti intensi e ironici al tempo stesso legati tra loro con la forza del linguaggio e da una scrittura capace di cogliere nel segno in tutte le sue sfaccettature.
Ciao, grazie per l’intervista. Nella premessa di questa piacevole raccolta (“L’ora migliore”) ci parli dell’importanza dell’acqua. Perché questo elemento diventa fondamentale nella tua opera?
Innanzitutto vorrei ringraziare voi di Flanerì per lo spazio che mi concedete. Quanto alla questione dell'acqua, si tratta di un elemento che ha segnato varie fasi della mia vita: innanzitutto sono nato sulla costa tirrenica (a Cecina) e sotto il segno dello scorpione; poi l'acqua (stavolta di un fiume) mi ha in un certo senso lavato via la malattia di dosso. Quando nacqui fui vittima di un attacco di convulsioni, dal quale a detta dei medici non mi sarei dovuto salvare. Nella disperazione, su consiglio di mia nonna, mia madre mi portò da questa “stregona” che prima m'unse il capo d'olio, e poi mi dette una maglietta bianca da sciacquare per tre giorni nell'acqua corrente di un fiume. Nonostante il mio scetticismo, non posso certo negare di esser guarito. Naturalmente io di tutta questa storia non ricordo niente, se non il racconto così come me l'hanno riportato i miei parenti. Si tratta insomma di un evento che non poteva non condizionare in qualche modo il mio cammino futuro: mi piace pensare che quella malattia, durante la quale smisi di mangiare, si sia portata via qualche grammo del mio Io, così ingombrante soprattutto negli scrittori…
Cinema e letteratura: a cosa sei più legato? Queste due arti si possono fondere tra loro?
Non posso dire di preferire l'uno o l'altra, perché non posso fare a meno della compagnia dei film e dei libri.
Ho sempre vissuto l'incontro tra queste due arti come qualcosa di naturale, che si è concretizzato nel campo della scrittura. Da quando esiste il cinema, si sono sempre fuse o scontrate tra loro. In principio era il cinema a saccheggiare i repertori della letteratura (ma anche le intuizioni di certi autori che avevano anticipato la “settima arte”, come Dos Passos o Joyce), e lo fa tutt'oggi quando trae film da romanzi di successo (che con l'uscita in sala moltiplicano le vendite). D'altra parte, però, non si può negare l'influenza che ormai il cinema ha nei confronti del nostro modo di guardare, e quindi anche di scrivere: in parole povere, sul nostro immaginario.
C’è un filo comune in questi tuoi racconti? Come definiresti questa raccolta?
C'è un doppio filo comune, anche se apparentemente tenue: da una parte il sogno e la follia che trasfigurano o attraversano queste storie; dall'altra la messa in mostra di un percorso personale, che è quello di un lento lavorio sulla lingua e sullo stile, se si pensa che queste 85 pagine sono una sorta di concentrato dei miei ultimi sei sette anni. Se dovessi usare una definizione, direi che si tratta di una raccolta d'immagini “mancate” (per tornare alla precedente domanda).
La forma-racconto da sempre bistrattata in Italia sta vivendo una vera e propria rinascita. Secondo te il merito va ricercato nella riscoperta di una certa letteratura anglosassone e americana? Cos’è per te il racconto, amore per il dettaglio?
Sinceramente non so se si tratti di una vera rinascita, ma di certo il mercato italiano non ha una gran propensione per il racconto (per quanto abbiamo avuto grandi maestri). Più che agli esempi stranieri, mi viene da pensare agli spazi offerti dalla rete, dove il racconto breve ha senz'altro trovato nuovi spazi. Forse pesa anche il pregiudizio che vede nel romanzo la prova di maturità di uno scrittore, come se si trattasse di una questione di quantità – va bene che la scrittura è a suo modo una forma di esercizio fisico, ma non si tratta di fare a gara a chi alza più pesi come in palestra. Questo per dire che raccontare una storia in dieci pagine o in duecento non è affatto la stessa cosa. Per me la forma racconto è stata e continua a essere fondamentale; certo, anche per la possibilità di soffermarsi sul dettaglio, e quindi sulle sfumature della lingua. Tornando ai riferimenti cinematografici, il racconto potrebbe essere paragonato a un'inquadratura (alle relazioni tra gli elementi al suo interno) o anche a un unico piano-sequenza (a un precipitato di mondo che si riesce a cogliere in pochi minuti).
Io ho amato molto “L’argine delle abitudini”. Qual è il tuo racconto preferito o quello a cui sei più legato?
Scelgo la dimensione affettiva e dico “L'amore a mille lire”, perché legato a un periodo che ha segnato in maniera indelebile la mia esistenza: l'anno passato all'interno dell'ex ospedale psichiatrico di Siena, dove ho svolto il servizio civile.
Giochiamo con il titolo di un racconto (e del libro). Qual è l’ora migliore per scrivere? Per “ora” intendo il periodo, reale e mentale.
Ognuno ha naturalmente la sua ora preferita. La mia è senz'altro di mattina, nel momento in cui la “realtà” è ancora minacciata dalle trame del sogno.
Come sta andando la promozione del libro? Progetti futuri? A quando il prossimo romanzo?
Sto cercando di promuovere il libro con l'aiuto dell'editore, che per quanto sia una piccola realtà (che di conseguenza fa fatica a trovare spazi), si muove molto bene. Il 9 giugno lo presenterò, insieme a Daniela Rindi e Carlo Sperduti (e i loro rispettivi libri), all'Hula Hoop Club di Roma (quartiere Pigneto). Poi, potete sempre trovarmi alle serate di lettura organizzate dal collettivo Scrittori precari. Quanto al prossimo romanzo, la strada è ancora molto lunga: dopo l'estate, però, dovrebbe uscire un mio nuovo libro per Edilet, nella collana “La nave dei folli”, che definirei piuttosto una novella lunga; una storia sulla perdita della memoria che affligge il nostro paese.
Tre autori che sono stati e sono importanti per la tua scrittura.
Luciano Bianciardi, Antonio Tabucchi (in particolare “Piazza d'Italia”) e Federigo Tozzi.
Tre autori che consiglieresti ai lettori di Flanerì.
Mi butto sugli italiani contemporanei, quelli che sento più affini: Vanni Santoni (“Gli interessi in comune”), Filippo Bologna (“Come ho perso la guerra”) e i fratelli Di Mino (“Fiume di tenebra”).
Grazie e a presto.
Grazie a voi per la bella chiacchierata.
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