Non lasciarmi

di / 23 settembre 2011

È difficile redigere una lista dei “casi editoriali”, di quei libri che ogni anno al momento della loro uscita suscitano accesi dibattiti tra critici e lettori sulle pagine dei giornali e nei palinsesti televisivi prima di sparire repentinamente nel nulla. Il tempo è sempre un ottimo giudice, e la maggior parte di queste opere si scioglie come neve al sole in maniera meritata e senza molti rimpianti.
(Ri)leggendo Non lasciarmi, a distanza di qualche anno dalla sua pubblicazione e dal clamore suscitato – non solo in ambito letterario -, ci si accorge di essere di fronte a una piacevole eccezione, per l’attualità sempre più stretta dei dilemmi etici e morali messi in campo dall’autore. Recentemente il libro ha avuto anche un adattamento per il grande schermo, affidato alla regia di Mark Romanek.
Eletto dal Time miglior romanzo del 2005, e inserito dalla stessa rivista nella lista dei 100 migliori romanzi in lingua inglese pubblicati tra il 1923 e il 2005, Non lasciarmi è ambientato in un passato futuribile, dove tutto quello che vediamo è già avvenuto, sullo sfondo di una società nella quale l’uomo è riuscito a sconfiggere le malattie, raggiungendo un’elevatissima aspettativa di vita. I miracolosi progressi della medicina hanno reso possibile ogni tipo di cura per mezzo dei trapianti. Ma come recuperare gli organi di cui la nuova società ha bisogno? È la funzione dei cloni di Ishiguro, fatti nascere – e poi morire – con il solo scopo di salvare le vite degli altri grazie alle donazioni.
L’autore racconta il cammino dell’io narrante Kathy H., di Tommy e di Ruth, dall’infanzia vissuta nel collegio di Hailsham fino al percorso che li porterà a diventare prima assistenti e infine donatori. I suoi cloni non sono creature fantastiche, non provengono da un altro mondo ma appartengono a questo mondo, che li ha creati per distruggerli e autoalimentare il proprio sogno di immortalità. Ishiguro ha la grandissima capacità di far emergere l’aberrazione di questo progetto, che di umano non ha nulla, grazie a uno stile delicato, con una narrazione in punta di piedi che descrive l’umanità (verrebbe da urlare: la troppa umanità) dei cloni, le loro speranze, i loro amori, la loro intimità. Ma anche il loro stupore, e la loro tristezza, quando comprendono pienamente per la prima volta la diversità che li separa dagli altri:  «Madame aveva paura di noi. Ma aveva paura di noi nello stesso modo in cui qualcuno potrebbe avere paura dei ragni. A questo non eravamo preparate. Non ci aveva mai sfiorate, l’idea di domandarci come ci saremmo sentite noi, a essere viste in quel modo, come dei ragni. […] La prima volta che cogli l’immagine di te attraverso gli occhi di una persona simile, è una sensazione tremenda. È come passare davanti a uno specchio davanti al quale sei passata ogni giorno della tua vita, e che all’improvviso riflette qualcos’altro, qualcosa di strano e inquietante».
Già a partire dall’incipit il romanzo è intriso di echi kafkiani: «Mi chiamo Kathy H. Ho trentun’anni e da undici faccio l’assistente». Quel cognome, con la sola lettera iniziale seguita da un puntino, non può non rimandare la memoria dei lettori alle pagine de Il processo e alla figura del povero Joseph K. Ma mentre quest’ultimo muore ammazzato come un cane, senza conoscere il motivo della sua condanna, i cloni di Ishiguro sono consapevoli del destino che li attende, e pur percependone la tragicità non è mai presente in loro, neppure a livello embrionale, un atteggiamento violento e di rivolta. Lungi dall’essere irrazionale o antirealistica, la scelta dell’autore risulta perfettamente coerente con il mondo che ha creato, perché è evidente che solo una società totalitaria e violenta può essere capace di realizzare un simile schema. Una ribellione sarebbe stata repressa senza nessuna pietà: dietro la rassegnazione – apparente – con la quale i cloni accettano il loro destino sfilano davanti ai nostri occhi i volti delle migliaia di deportati nei gulag sovietici e nei campi di concentramento nazisti. L’autore si mantiene fedele alla scelta di non spiegare le circostanze storiche che hanno portato alla realizzazione di questo progetto, cadendo solo nel finale, quando si sente in dovere di chiarirle attraverso le parole pronunciate a Kathy da una ex tutrice del collegio di Hailsham. è questa l’unica nota stonata di una sinfonia altrimenti perfetta, un inserto didascalico che non aggiunge nulla a una comprensione già chiara agli occhi di un lettore accorto.
Leggere questo romanzo significa confrontarsi con i problemi legati a uno sviluppo tecnologico inarrestabile, alle potenzialità della medicina, a nuove scoperte che potrebbero allungare in maniera indefinita l’aspettativa di vita delle persone. L’opera si focalizza sugli aspetti intimi delle vite dei personaggi ed è per questo motivo immune da qualsiasi possibilità di strumentazione o distorsione ideologica. Non prevalgono mai i tratti dell’invettiva ma quelli di un monito implicito, di un avvertimento rivolto a tutti coloro che credono nella possibilità di sacrificare indebitamente ogni valore in nome dell’esclusivo benessere personale.
Qualcuno potrebbe obiettare che nemmeno nelle più fosche e tetre previsioni potrebbe esistere una società come quella immaginata da Ishiguro. Probabile. Ma ne siamo veramente sicuri? Nei periodi di crisi – e quello che stiamo vivendo in questi anni è un periodo di crisi, molto più di quanto riusciamo spesso a cogliere – una società può reagire aprendosi al mondo e condividendo con gli altri un percorso di rinascita, o chiudendosi in una dimensione privata e familiare, dove l’altro è visto come un nemico, una risorsa da sfruttare e spremere per i propri interessi. Quando prevale un simile atteggiamento tutto diventa possibile, e la barriera tra ciò che è moralmente etico e ciò che non lo è si fa sempre più sottile. L’unico rimedio per evitare di travalicare irreversibilmente questa barriera è di sottoporsi a una continua interrogazione sui limiti di ciò che è lecito. Se questa interrogazione, disgraziatamente, venisse accantonata, il rischio di precipitare nella logica dell’universo ishiguriano diventerebbe di colpo reale: «Come si può chiedere a un mondo che è arrivato a considerare il cancro come una malattia curabile, come si può chiedere a un mondo simile di accantonare la cura, di tornare nell’età infelice dell’impossibilità?».

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