“C’era una svolta” di Martino Ferro
di Cristiana Saporito / 27 settembre 2011
L’illustrazione è quella giusta. Un cuscino dentato sguaina le fauci, mostra il suo ghigno di carne e una siepe di smorfie oltre cui non c’è niente di certo. All’impigiamato non resta che arrendersi. Si genuflette sul suo piumone e poi si abbandona al potere, al concerto di ombre che spiovono sulle pareti.
Chi le ascolta lo sa. Le favole ingoiano. Sono la notte del tempo reale. O forse il momento in cui il tempo accade realmente, senza saperlo. Martino Ferro, autore riuscito di programmi tv e già Premio Calvino, ci fa attraversare una porta sottile, in cui scroscia la neve dei nostri fatti, mascherata per bene sotto un sorriso.
Il suo nuovo libro C’era una svolta (Verdenero Edizioni), sagace riscrittura proprio delle fiabe calviniane, ci propone un ventaglio di storie che ci appartengono, coniuga i verbi più bui (condannare, uccidere, tradire) con il ritmo ondulato di un sogno, di un canto ritualizzato.
Tonino Buttalamare, un innocente che sta per morire, esibisce durante il processo le sue ultime carte, quei racconti che sono la sua verità. E il solo segmento di salvezza.
Tredici titoli che sono i nostri veleni, i nostri malanni, il passo debole e storto con cui ci ostiniamo a toccare i traguardi, a sbarcare a fine giornata. Convinti che non ci sia alternativa.
S’inizia con “San Precario”, parabola amara e brillante di un miraggio chiamato “lavoro”.
Tre fratelli ormai orfani lasciano casa per non vederla sfiorire, in cerca di qualche guadagno e uno alla volta, pur se provvisti di grandi qualifiche, finiscono impigliati nella tagliola di un call center, dove si gioca soltanto al ribasso, dove chi presta servizio poi presta anche l’anima e dopo ancora la vende, perché l’ha spremuta troppo e tutta in quella stanza. Il contratto sancisce che non ci si può arrabbiare, perché la dignità non è prevista nel pacchetto e quegli spiccioli sono decisamente troppo pochi per poterla accarezzare. Quindi, bisogna ammaestrarsi, insegnarsi l’assenso, in ogni occasione, altrimenti si può perdere tutto. Quando tutto è quasi niente.
Sembra che non ci sia soluzione, ma forse, per chi è scaltro abbastanza, una strada più fresca aspetta i piedi più coraggiosi.
Si prosegue col “Banchiere americano e il contadino cinese”, geometria impeccabile del fallimento economico, della crisi che ha masticato l’Occidente e se lo tiene in gola, indecisa se inghiottirlo o meno.
A uscirne vincenti sono così i nuovi ricchi, che hanno sperperato meno e raccolto di più. Gli unici ad aver conservato un po’ di denaro al posto dei lupini.
Bellissime e struggenti sono le pagine del “Lupo Camorro”, incubo ed angoscia di un intero paese, quello di Campanella e dei suoi abitanti, che ovattano i sensi e le loro vite con campanelli e paraocchi e non si accorgono che la terra sputa sangue, che la mozzarella è acida e nera, come i loro polmoni.
Che sono sepolti soltanto di scarti, perché loro stessi sono considerati tali. Gente di monnezza, che in mezzo ai rifiuti può anche campare. Finché qualcuno, tenace come il ferro e furbo come il peperoncino, un uomo esile e forte di nome Savino, mostrerà loro come l’unica risposta sia la loro attenzione, la loro coscienza, la volontà di sentire respirare il cielo intorno e di abdicare all’indifferenza.
S’affaccia poi “Lucrezio Annibale Persona Amabile”, unico figlio del Re in grado di travestirsi da donna e di spacciarsi per tale, perché donna si sentiva davvero. E con la sua purezza abbagliò un altro re e se lo sposò, sconfiggendo le leggi che declinavano l’amore.
Lo stile è sferzante, ironico e secco. Leggerlo diverte, ma non lascia via d’uscita. Ogni caso è un tassello, un affresco di ciò che viviamo e che fa paura, perché vestito da fiaba sembra ancora più vero.
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