“Timidezza e dignità” di Dag Solstad
di Francesca D’Ambrosio / 2 dicembre 2011
È un lunedì mattina di fine ottobre. Elias Rukla, professore di norvegese in un liceo di Oslo, esce di casa col suo ombrello pieghevole e i suoi libri: lo attende una sonnolenta e ostile classe di maturandi per una lezione su L’anitra selvatica di Ibsen. Arriva. Entra in classe. Riprende la spiegazione lasciata in sospeso, ma la sua brillante interpretazione sul personaggio secondario del dottor Relling non desta nessun interesse: è un fatto privato, un piacere solipsistico e marginale nel dilagare della noia rancorosa di quei diciottenni, chiusi nei loro involucri imberbi e refrattari ad ogni stimolo intellettuale. Per lui invece, vecchio idealista fuori tempo, la vivacità del dialogo, lo scambio d’opinioni in una discussione, la comprensione condivisa del senso sono ancora un bisogno, che però non riesce più a trasmettere né in classe, né altrove. Ed è questa sensazione di frustrazione, di inadeguatezza a vivere il suo tempo che gli fa salire, quella mattina d’autunno, una rabbia crescente e incontrollabile: terminata la lezione, fuori al cortile, distrugge il suo ombrello e insulta gli studenti in preda ad una violenta e quanto mai grottesca crisi di nervi. Da qui in avanti il romanzo si apre su un lungo flashback che riporta il protagonista agli anni della sua giovinezza: l’università, la passione politica, l’amicizia con il promettente filosofo Johan Corneliussen, compagno di studi e amante della bellissima Eva Linde (di cui anche Elias è segretamente innamorato e che, anni dopo, diventerà sua moglie). Un percorso à rebours per capire dove è stato l’errore, personale e collettivo, che ha portato la società occidentale tutta – compresa la Norvegia, ritenuta spesso nelle nostre certezze mediterranee il correlativo oggettivo della miglior democrazia possibile – a questa nuova specie di décadence in cui tutto è bevuto, tutto è mangiato e, in sostanza, non c’è più nulla da dire.
Un libro sulle speranze deluse, il senso di frustrazione e, in sostanza, l’inettitudine del classico uomo per bene alla resa dei conti, di cui apprendiamo pian piano l’idealismo, l’acuta capacità d’analisi, la passione per la donna amata e la professione di insegnante. E ce lo immaginiamo col suo vestito un po’ consunto, seduto al buio, davanti a un bicchiere e ai libri polverosi, mentre rievoca la sua età fiorita vissuta all’ombra di un amico più coraggioso, più brillante, che un giorno ha piantato tutto per inseguire sogni di gloria (ché anche i marxisti, coll’andar del tempo, finiscono per apprezzare più il denaro de Il Capitale) lasciandogli in regalo i suoi cocci da riattaccare. Il più prezioso si chiama Eva, donna bellissima, gentile, misteriosa, ma forse più grata che innamorata.
Scrive Solstad: «Si muovevano forse ognuno nel proprio universo ma nello stesso appartamento, e le cose che erano lì erano comuni; e in queste condizioni si frequentavano senza scontrarsi ma passando uno accanto all’altra ognuno nella propria orbita».
Un castello di carta insomma, e di rabbia, che emerge, prepotente, in un giorno di pioggia qualsiasi. Senza più timidezza. Per dignità.
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