“Dolorose considerazioni del cuore” di Sandra Petrignani
di Cristiana Saporito / 8 dicembre 2011
Ci sono due mondi. Quello sopra e quello sotto le coperte.
La girandola di cieli che cinguettano fuori, schiavi del vento e dei calendari, la frenesia di vestirsi per essere altrove, anche in fretta. Incipriarsi le gambe di belle intenzioni e affrontare gli oroscopi delle correnti.
E poi, c’è il nostro letto. Senza impegni né orologi. Un lago senza refoli in cui scegli di restare, un giorno solo, un giorno intero, a «frugare nei ricordi», a decidere che oltre la porta non c’è niente di più bello da barattare col lenzuolo.
Tina sta lì, nella capanna di stoffa, a sbucciare i suoi fatti, a metterli in fila. E da un punto protetto comincia a spogliarsi, scopre i tasselli al riparo dal sole e ci offre le sue Dolorose considerazioni del cuore (Nottetempo). L’autrice Sandra Petrignani ha optato per il titolo giusto, perché protagonista assoluto del romanzo è proprio quell’organo, quell’insieme di tessuti che spinge il sangue sopra e sotto i suoi strati, intorno e dentro la pelle.
Tina si rivolge a Vittoria, amica perduta e poi riabbracciata dopo anni di vuoto, si ripercorre a ritroso, viaggia su di sé in varie direzioni, fino a tracciare l’«autobiografia di una borderline».
La strada dissestata di una bambina troppo magra, innamorata di una madre sfuggente, che non voleva baci, che difendeva il trucco e rimpiangeva Roma, e di un padre eroico, che si opponeva al potere, che seduceva le donne, che conosceva la fame e ha saputo sconfiggerla.
E allora anche Tina ha cominciato a non mangiare, perché quel poco che ingerisce non rimane dentro, cerca l’uscita, si aggrappa alla gola finché non spunta al di là della bocca.
Vomita sempre, Tina, si contorce lo stomaco, perché quella è l’unica parte a chiedere aiuto, a implorare attenzione mentre il resto tace o s’imbosca. Gioca in silenzio i suoi tempi morti.
Poi Tina è cresciuta, ha imparato a nutrirsi, a sentirsi migliore.
È diventata attraente e si ciba di sguardi, dei tremiti ammirati che suscita negli altri, dei valzer di uomini ai confini del suo nome. Yann e Jean Brice, cavalieri francesi di una vacanza, sono solo due esempi di come l’amore si può scomporre. In un volto sicuro e in uno appassionato. Nella stretta di chi ti rassicura e in quella di chi sa spezzarti anche solo sfiorandoti.
Non emette alcun verdetto Tina, si lascia agire, lascia che il destino stabilisca un vincitore, tanto il treno è già pronto a riportarla a casa, senza lacrime né scorie.
Perché è vaccinata, sa come non soffrire, rendere l’anima ignifuga e gli occhi impermeabili.
Perché ha vissuto di strappi, fino a quando non hanno fatto più male, fin quando la carne ha imparato a sorridere di ogni ferita. Ama così Tina, dando fondo a quel pozzo per poi liberarsene, abusando di sé per alleggerirsi.
E dopo è invecchiata, con due genitori anziani e incattiviti, malati di brutta vita e di troppe abitudini. Avverte per questo il bisogno di scrivere, dietro uno scudo di lana, di dichiarare l’eterna sfida del conoscersi, di voler bene a qualcuno e di volere veramente qualcosa, accettandone i costi.
Il libro è un flusso incessante, un sogno in stato di veglia in cui l’autrice restituisce se stessa, ci racconta la sua forza minacciata e le sue infinite brillanti debolezze.
Con uno stile rapido e tagliente, che non fa sconti all’amarezza, col suo piglio giornalistico e appuntito che fotografa i tormenti, li ritrae mentre scorrono e poi li risveglia quando sono passati, la Petrignani estrae dai suoi cassetti la vita di chiunque, i dubbi che spesso seppelliamo sotto metri di turni e andamenti regolari.
E ci regala un profilo dolente, dov’è l’ombra a comporre più versi, un angolo di donna che non solo attraversa il femminile, ma da lì costeggia l’umano e lo inchioda allo specchio.
Il tutto sotto il tetto di un piumone.
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