“Lo dice Harriet” di Beryl Bainbridge
di Elisa Cianca / 17 gennaio 2012
Il romanzo Lo dice Harriet è uscito nel 1972, ma è stato tradotto e pubblicato in italiano presso le edizioni Astoria nel 2011. Beryl Bainbridge, l’autrice scomparsa nel 2010, è considerata una delle scrittrici inglesi più rappresentative del Ventesimo secolo.
Harriet e la narratrice sono due adolescenti che, tornate a casa per le vacanze, trascorrono l’estate insieme. Proprio in questo clima di relax e sospensione dei doveri scolastici, assaporano la libertà da qualsiasi obbligo e controllo dei genitori. In questo clima di ozio si fa strada l’idea di escogitare dei dispetti ai danni del vicinato.
La letteratura è piena di esempi di Enfants terribles come recita il titolo di un famoso romanzo di Cocteau, ma stavolta si tratta di un’intesa tutta femminile: «Attraversammo il campo mano nella mano come due bambine».
Harriet è bella, abbronzata e incantevole: ammalia tutti gli abitanti della cittadina con i suoi modi falsamente affabili e il suo savoir faire. L’altra è la sua «amichetta cicciottella», una tredicenne complessata e problematica che vive male il rapporto con il proprio corpo: «Pensavo di sembrare vecchia e tonta». Insieme architettano un piano: far innamorare il signor Biggs, un uomo di mezza età, sposato e insoddisfatto, per poi umiliarlo e tirarsi indietro. Le due ragazze vivono un rapporto simbiotico in cui nessun altro riesce a entrare; questa esclusività si stringerà a cerchio intorno a loro fino a togliere il respiro. Come ogni adolescente che si rispetti Harriet ha un diario segreto: «Harriet s’inginocchiò e prese una scatola da sotto il cassettone, l’aprì e mi porse il diario».
L’amicizia tra le due ragazze non procede, però, sullo stesso binario, è squilibrata poiché Harriet è la mente da cui parte ogni disegno malvagio e l’altra è semplicemente il braccio: il suo ruolo è quello di eseguire gli ordini. Persino nella redazione del diario l’una detta e l’altra scrive a matita. Qualche pagina più avanti si scopre addirittura che Harriet nasconde alcune esperienze alla complice: «Quella sera, quando scrivemmo il diario, Harriet mi disse di usare una pagina nuova, perché non vedessi quanto aveva scritto precedentemente».
Il titolo Lo dice Harriet richiama quell’ipse dixit aristotelico che sottolinea l’autorità e l’autorevolezza di colei che parla o meglio comanda senza ammettere rifiuti. La narratrice assume il ruolo di una marionetta nelle mani del burattinaio e si lascia plasmare. Prova un’ammirazione cieca nei confronti dell’amica: «Si chinò su di me prendendomi per le spalle. Mi sentii soggiogata. […] Allora sentii di amarla: era così saggia, così buona, così dolcemente scaltra e capace di fronteggiare la situazione». Non è un caso se nel romanzo non compare mai il nome della narratrice: i vicini di casa, i genitori, nessun personaggio la chiama per nome. Ciò evidenzia il ruolo di subalternità della coprotagonista che diventa un surrogato di Harriet. Si aggiunga a tutto ciò la forte rivalità con la sorella Frances espressa in alcuni passi: «Mi volsi per abbracciare mia madre, ma lei era impegnata a circondare Frances di carezze, e non me la sentii».Il disagio esistenziale si fa sempre più evidente in un personaggio che, privo di esempi nelle figure adulte che lo circondano, segue la propria amica eleggendola a modello indiscusso.
La vicenda mette in luce un mondo di adulti superficiali e negligenti, incapaci o indolenti nei confronti delle ragazze. I genitori non sono figure affidabili, proprio coloro che dovrebbero tutelare sembrano completamente assenti, assorbiti da quotidiane occupazioni insignificanti. La mamma di Harriet viene definita dalla figlia «un donnino»sminuendo il ruolo di moglie e di madre. La mamma della narratrice, invece, è spesso intenta a curare il giardino quasi volesse fuggire dalle responsabilità familiari per chiudersi in un eden domestico.
Purtroppo questi genitori si sono macchiati di una colpa che ricadrà inevitabilmente sulle figlie, hanno fatto promesse non mantenute: «Ormai la guerra era finita da un pezzo, e di pony non si era più parlato. I nostri genitori ci avevano fatto quella promessa perché volevano convincersi che sarebbe finita bene».Da quel momento le ragazze useranno «il leggendario pony»come simbolo di tutte le cose impossibili. Questa perdita di credibilità atavica non potrà essere sanata in alcun modo ai loro occhi.
La vicenda si svolge in una tranquilla cittadina di provincia: «Tutto era così uniforme e silenzioso nel viottolo, tutto invitava alla tranquillità: la schiera di casette tutte uguali di mattoni rossi, la fila da città-giocattolo dei comignoli che sbuffavano nel cielo smorto turaccioli anneriti di fumo. Un decoro domenicale vestiva il viottolo di silenzio e di rispettabilità». L’ambiente sereno – fin troppo immobile – risulta inquietante, come in quei film dell’orrore in cui una placida cittadina viene sconvolta da avvenimenti inspiegabili. Infatti si tratta di una calma apparente: ciò che avviene all’interno delle case è ben custodito: «Dietro le tende le famiglie sedevano in un’atmosfera di caldo affetto, al sicuro nelle loro scatole poste al centro dei rispettivi riquadri di prato». In realtà le due fanciulle cominciano a intuire i segreti più nascosti dei vicini: «Sarebbe stato uno dei ricordi di quella lunga estate, lo spiare interminabile da finestre segrete». Per Harriet e compagna questo diventa quasi un compito quotidiano: «Cominciammo a far lunghe passeggiate sulla spiaggia, alla ricerca di persone che, per aver scelto la solitudine, dovevano avere qualcosa da nascondere».
In questo clima rassicurante si affacciano immagini che profanano l’idillio e introducono un disfacimento materiale suggerendo la corruzione morale: «Una volta al centro dello stagno, Harriet e io avevamo visto due rane morte, gonfie d’acqua, che galleggiavano con le pance bianche in aria, come pezzi di pane».
Si incontrano in un posto particolare che prolifera di esseri in decomposizione e oggetti portati a riva dalla marea: «Casse intere di frutta marcia, meloni, arance e pompelmi, che l’acqua salata gonfiava e faceva scoppiare; blocchi di carne […] dove penetravano i vermi e si attaccavano le meduse, esseri violacei osceni e senza cervello. Harriet le trapassava con dei bastoncini di legno, ma erano già morte».
Fin dalla sua prima apparizione Harriet viene descritta «con le trecce che le svolazzavano di lato»; queste «treccine fissate intorno alla testa» le danno l’aria di una “Pippi Calzelunghe combinaguai” e simboleggiano l’infanzia; infatti il taglio dei capelli sancirà una sorta di rito di passaggio verso l’età adulta. Ma il lettore intuisce benissimo che la disillusione e la perdita dell’innocenza sono già sopraggiunte, come confida Harriet all’amica: «Spesso mi viene in mente che abbiamo superato il nostro momento magico. Non saremo mai più buone come siamo state un tempo. Adesso si comincia a retrocedere».
(Beryl Bainbridge, Lo dice Harriet, trad. di Massimo Bocchiola, Astoria Edizioni, 2011, pp. 200, euro 15)
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