“Camminare, una rivoluzione” di Adriano Labbucci
di Gabriele Sabatini / 21 gennaio 2012
«Se cercate insegnamenti sul camminare all’ultima moda, con tanto di lezioni, corsi e relativi professori, oppure ricette sul camminare come cura di sé, o infine paginate di resoconti che si perdono inevitabilmente tra il noioso e il paranoico, lasciate stare: questo libro non fa per voi».
È così che inizia il volume di Adriano Labbucci uscito per Donzelli, eppure leggendolo ci si accorge che camminare è una cosa che va fatta bene, col ritmo giusto, col passo cadenzato secondo le proprie forze: se si poggia troppo il peso da una parte si rischia di arrivare stanchi, se si va troppo lenti ci si innervosisce. Ecco, camminare segue il tempo naturale e fare le cose secondo questo tempo significa liberarsi dalla schiavitù di fare sempre il più possibile, sempre più in fretta, magari non troppo bene.
E allora camminare diventa una forma di libertà, e se n’erano accorti già gli antichi greci, secondo i quali – per dirlo con le parole di Hannah Arendt – «essere liberi non significava altro che andare in giro a proprio piacimento»; e ce ne accorgiamo anche noi, che viviamo nell’epoca della libera circolazione delle merci ma non delle persone.
Questo libro non parla dunque di marce forzate o di deliziose passeggiate tra monumenti, è più un incontro con la filosofia e la storia del camminare, da Aristotele al Novecento, passando per Kierkegaard, che non conosceva «pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una bella camminata».
(Adriano Labbucci, Camminare, una rivoluzione, Donzelli, 2011, pp. 154, euro 15)
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