“Di passaggio” di Jenny Erpenbeck
di Cristiana Saporito / 13 febbraio 2012
C’era una volta una grande tenuta, ammantata dal bosco e affacciata sul lago.
Una terra vivace come un corpo, con capelli di foglie e organi freschi per ogni stagione.
Una macchia di alberi e cielo. E sulle sue gambe, appuntita come una smorfia, spunta una casa.
Non è un quadro impressionista, pur avendone ogni elemento.
È la cornice, e insieme il dipinto, il soggetto e il contesto del romanzo di Jenny Erpenbeck, Di passaggio (Zandonai, 2011). All’interno di questo mondo, nel respiro della sua proprietà, si avvicendano undici storie, con le loro vite satellite, i loro moti di fango e di stelle.
Tutto prende avvio con la famiglia dello scoltetto e le sue quattro figlie, tra cui spartire ettari e piante.
La più piccola e strana, Klara, eredita la parte più vicina al lago. Zoppica quando cammina, forse anche quando pensa, forse anche i suoi sogni sono scalzi e così li riveste nell’acqua, li bagna fino a strozzarli.
E affoga, con una scarpa sulla neve, affoga svelta, come si spegne una candela con un soffio soltanto.
Il funerale è un lungo saluto, farcito di riti e di abiti scuri. Finestre sbracciate, alcol, aceto, paglia e ortiche.
Prima di valicare la soglia si posa la bara tre volte, per evitare che l’anima torni.
Ma probabilmente non è abbastanza, perché quel senso di buio e incertezza impregna le mura e scorre sui tetti, tra le radici, diventa la falda di cui si nutre il terreno.
Lo scoltetto abbandona quei confini. Ed è il turno dell’architetto, che per mestiere e vocazione ha imparato a costruire, a sovrapporre mattoni intorno ai suoi desideri. E a quelli di sua moglie. Si lega allo spazio che è fuori per edificarne uno interiore, per cucire un costume di pietra sulla pelle dei suoi giorni.
E quella dimora, stanza per stanza, racconta la voce di chi l’ha abitata. Il camino, l’armadio col doppio fondo, la testiera del letto dove uccidere tutte le notti. Ogni barlume di quelle pareti sembra istoriato, si accende dei passi di chi arriva e poi se ne va.
Come fa Ludwig, il produttore di tessuti, che s’impianta lì, tra le campagne di Brandeburgo, con la sua carovana di parenti, con le corse dei bimbi verso un frutto da mordere. Con gli eucalipti che frusciano come non fanno altre fronde. Scava col padre Ludwig, scava la buca per il suo salice. Scava perché su quella striscia oltre al salice sta fissando un po’ della sua esistenza. Sta tracciando un legame. Che la guerra brucerà, senza chiedersi il motivo. Perché le piante fioriscono, gemmano tiepide al primo sole, si spezzano per ricomporsi.
Ma altre ferite non si riparano. Per altri petali non c’è un secondo tempo.
C’è chi è costretto a lasciare la propria dimora, quel perimetro tagliato con le proprie mani, dove sentirsi felici e poi intoccabili. Qualcuno ha deciso che è ora di andare, che per gli ebrei è ancora il caso di fuggire.
Di decostruire, di smontare il palazzo pezzo per pezzo. E con esso ogni attimo coltivato lì dentro.
E la fuga diventa la meta. Perché chi scappa ha la stessa solitaria volontà: salvarsi, cercare il “lontano” possibile, uno qualunque, dove ricominciare.
Qualcuno riesce, qualcun altro, come la piccola Doris, resterà piccola. Resterà all’ombra. E le sue unghie si fermano, il suo fiato s’affossa. E anche il suo nome, così giovane e così breve, sfuma insieme al cadavere lungo la fossa. E riapproda «nell’alveo di ciò che non è stato ancora inventato».
A bordo di quel suolo si snodano storie diverse: soldati russi che occupano, tedeschi che vengono invasi, battaglie cosparse di sangue e altre bianche e disarmate tra chi parte e chi giunge.
La sola sicurezza, l’unica figura che non cambia, che raccorda quei flussi continui, è quella del giardiniere.
Un uomo innominato, perché le etichette sono fatte per staccarsi e per morire. Come d’altronde chi le indossa.
Il ruolo invece sa resistere, come il bosco, come il lago.
Il giardiniere sega i tronchi, accatasta la legna, disseta l’aiuola, pota le rose. Ridefinisce e rinnova quella geografia coi suoi gesti pazienti. E costanti. Agisce come la vita sull’ecosistema.
Si adegua alle direttive dei nuovi proprietari e fa parlare il giardino di infiniti equilibri.
Tutto il resto, appunto, è di passaggio.
Scrittura densa e tagliente, in un valzer di strade che si intrecciano e si confondono.
Perché alla fine non conta capire di chi, ma di cosa esattamente trattiamo.
Del viaggio interminato di chi invece finisce. Degli istinti, degli orrori e dei conflitti che mutano lingua e mantello, ma non crudeltà. Della voglia di avere un rifugio, una tana in cui scaldarsi e riconoscersi.
L’autrice, nata a Berlino Est, sa bene cosa affronta. I dolori di un muro che graffia, quando sorge e quando crolla. Un muro oltre il quale c’è un giardino, che aspetta di essere innaffiato.
(Jenny Erpenbeck, Di passaggio, trad. di Ada Vigliani, Zandonai, 2011, pp. 168, euro 16)
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