“La felicità di Emma” di Claudia Schreiber
di Cristiana Saporito / 6 marzo 2012
Ci risiamo. Ho ancora bisogno di libri. I sintomi sono chiari: formicolio degli occhi in prossimità degli scaffali, ipercinesi dei palmi, aumento del battito cardiaco intorno alla quarta di copertina.
Tutta un’ansiosa primavera muscolare, con ogni fibra e centimetro che scandagliano furiosi in mezzo alle pagine per brucare un po’ di ossigeno. Avviene così, mediamente ogni settimana, quando, dopo aver pulito la bocca dall’ultima riga, comincia a scalciare una fame segreta, che poi non resta più tale, perché serpeggia fino alla gola e fa troppo rumore per poterla ignorare. E non servono starnuti, neanche i più poderosi, per riuscire a scacciarla. Succede così, a noi malati di storie. A noi che dobbiamo sedare una continua astinenza, anche quando è già sazia, anche quando dovrebbe tacere.
E allora ci si accorge che non è tanto e non solo il tipo di trama ad afferrarti. Le fantasmagorie acrobatiche del plot elastico e avvitato, che sa ruotare su se stesso e poi stupirci con effetti speciali.
Perché non esistono vicende banali, ma solo modi banali di raccontarle. Esiste un perimetro impalpabile, metri che non tocchi di un mondo chiamato “atmosfera”.
Esiste chi, quando scrive, qualsiasi sia il segmento in viaggio da A a B, qualsiasi sia l’arredamento della stanza, sa prenderti per mano e portarti dentro. E tu annusi la vernice, calpesti la maioliche di ogni paragrafo fino a stabilire dove dormirai, dove piazzerai le piante che ti terranno compagnia. Così, quando arriva il punto, sai che devi congedarti. E lo fai a stento.
Come è successo a me con La felicità di Emma, primo romanzo tradotto in italiano di Claudia Schreiber, edito da Keller. Ancora Keller, una piccola casa editrice che ci ricorda come scegliere gli autori giusti, come lavorare in un ambiente divorato spesso dagli stessi nomi, senza mai rinunciare a proporre qualità. E sentieri semplici in cui riconoscersi. Una collisione di universi tra due protagonisti.
Max, impiegato nel lavoro e nella vita, consacrato a far quadrare anche l’aria e a contarne i capelli; pulito, impeccabile, ordinato fino allo stremo del calcolo. Se può, quando può, sterilizza anche il tempo. Finché non scopre che il tempo non c’è più. Come capita a tanti, che affrontano i giorni quasi fossero infiniti. Senza contare il necessario. Senza contare che il calendario è anarchico. Senza contare che spesso si ribella e da un momento all’altro ci rivela che non ha più fogli. Tumore al pancreas, un organo piccolo e dimenticato, che si scopre di avere solo quando non funziona.
Cosa resta allora a Max, che fino a quell’istante non si è mai innamorato, ha vissuto poco, ha vissuto piano, ha evitato i rischi, ha foderato di paure ogni angolo? Cosa resta a chi sa che ogni minuto scivola via come un anno? Che non ci saranno abbastanza falangi per trattenerlo a sé? Ruba dei soldi e poi scappa, come se non l’avesse già fatto da sempre.
E lì, tra gli spasmi della fuga, dopo un incidente, s’imbatte in Emma, una contadina sporca e arruffata che in quarant’anni non si è mai sentita bella, perché troppo occupata a sopravvivere. A farlo da sola. Ad allevare le sue bestie e i suoi tramonti senza guardarsi allo specchio. La sua famiglia è morta e per lei è stato un bene, è stato liberarsi da ombre tanto grasse da non permetterle di muoversi. Emma accarezza i suoi maiali, se ne prende cura come fossero fratelli, come fossero figli, li nutre, li abbraccia e poi li uccide con un taglio netto, perché quello è il suo ruolo. È quella la sua felicità. Il resto non importa. L’essenziale è sentirli contenti fino all’ultimo fiato e risparmiare comunque il dolore.
Un dolore che lei conosce bene. Quello di essere nata femmina quando in campagna servivano altre mani, altre forze superiori alle sue. E allora lei ha imparato a essere maschio, a non piangere, a non lamentarsi, a sotterrare i suoi brividi tra gli strati di fieno. A estrarre il cuore al maiale, a sciogliere i grumi, come se quello non fosse sangue. Mentre altre notti, altra polvere, altre grida le coagulavano dentro, molto al di sotto della pelle. E per quelle non c’è gesto sapiente che le renda più liquide, che le lasci scorrere.
Insomma, Max e Emma s’incontrano e pur essendo all’apparenza inconciliabili, hanno lo stesso buco addosso. Un mal di vivere che attacca i tessuti, senza distinguere quali con esattezza.
Nessuno dei due ha realmente vissuto, per entrambi l’amore è una camera vuota, in cui sentirsi a disagio e più spogli di prima. E dallo scontro tra i loro volumi si sviluppa il corpo della trama, nasce un’altra creatura, fatta dei loro lati più deboli e del loro calore. Un’entropia che si spande e lascia a ognuno una lezione da spremere.
L’autrice non ha pretese di colpi di scena, non sorprende con auto volanti o realtà parallele. Né attorciglia segreti nodosi o identità plurime. Ci offre con grazia la straordinarietà del quotidiano, con le sue ferite più o meno inguaribili. Tratteggia un paesino di sola natura, un villaggio di gente elementare, pettegola e gretta, che alterna estrema pochezza a umanità lancinante. Commuove senza straziare, diverte e colpisce col dono inatteso della leggerezza. Soltanto. Come se fosse facile.
(Claudia Schreiber, La felicità di Emma, trad. di Angela Lorenzini, Keller editore, 2010, pp. 208, euro 14,50)
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