“Doppio ritratto” di Massimo Cacciari
di Mario Massimo / 15 marzo 2012
Non bisogna lasciarsi ingannare dall’apparenza di leggerezza con cui viene incontro, sui pletorici banchi delle librerie, questo libretto di Massimo Cacciari, Doppio ritratto, San Francesco in Dante e in Giotto: la densità dello sguardo critico, la complessità dei rimandi culturali, e più strettamente filosofici, sono per lo meno proporzionali al rispetto che mostra di avere per le languenti risorse cartacee del pianeta. C’è, naturalmente, la puntigliosa dissezione (o, come forse lui preferirebbe dire, dis-sezione…?) del lessico, di quello filosofico e religioso in particolare, a cui Cacciari ha da tempo abituato i suoi lettori; ma, superato questo, forse un tantino fastidioso, vezzo di accanimento filologico sul linguaggio, ci si imbatte in realtà in una interpretazione molto persuasiva e avvincente, non solo della poesia di Dante e della pittura di Giotto, ma soprattutto, direi, della figura di Francesco d’Assisi, del significato, intanto, storico e umano. della sua rivoluzione ideologica, ma poi ancora meglio, di quello di concetti come la figura Christi, o il valore particolarissimo della paupertas non più e non solo come l’avrebbe vista un cinico, un cirenaico nell’Antichità – spoliazione del superfluo, volontaria e quasi “abbaiante” rinuncia ad ogni “di più” – ma come veicolo d’identificazione alla nudità di Cristo, e, perfino, come necessario complemento della laetitia, quella francescana, e quasi re-infantilizzata, gioia di frui Deo, di godere di Dio attraverso l’opera delle Sue mani, nel creato.
Proprio questa francescana capacità e quasi necessità di letizia sarebbe, secondo Cacciari, la cosa che meno Dante condivide, nella sua “biografia” del santo così aristocraticamente espunta di ogni indulgenza al miracoloso – che non sia, ovviamente, il tremendo “dialogo” con Dio nella propria carne, col suggello delle stimmate – e al “fioretto”. Per Dante, ciò che contava, nell’esperienza di Francesco, sarebbe la “durezza” con cui si pone di fronte all’autorità papale (e che, non a caso, Giotto invece ammorbidisce in un’ossequiosa genuflessione, nel rappresentare la stessa scena), a sua volta quasi svillaneggiata dall’essere stata mero strumento («…redimita / fu per Onorio…») dell’intervento dello «Spiro» nelle vicende umane.
Di Giotto invece, con coltissimo taglio storiografico – e quasi letteraria tristezza, di fronte all’inverarsi del “tradimento” del messaggio di Francesco ad opera degli alla lunga trionfanti Conventuali: tradimento che così tanto (altra felicissima intuizione di Cacciari!) lo accosta al suo Modello – viene individuata la lettura di Francesco come santo delle soddisfatte gerarchie e classi sociali vincenti, al volgere del ’300.
Non la prevedibile coincidenza, dunque, vede Cacciari fra i due «fabbri del parlar nostro», nell’accostarsi alla stessa figura, quanto piuttosto una dolorosa divaricazione, una proiezione, sul destino del «fi’ di Pietro Bernardone», del proprio, così drammaticamente diverso, «essere-nel-mondo»: checché se ne voglia pensare, il libro è, nella sua meritoria per quanto acuminata brevità, un’esperienza che si raccomanda caldamente, a ogni buon, vero lettore.
(Massimo Cacciari, Doppio ritratto, Adelphi, 2012, pp. 86, euro 7)
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