I had a dream
di Cristiana Saporito / 19 marzo 2012
L’altra notte non ho dormito. Eppure ho sognato, così come non mi accadeva da tanto. Forse non serve che il corpo si spenga, basta solo che sfumi il volume, che deponga gli spasmi sotto le unghie. E poi il resto si amplifica.
Ho sognato che andavo a teatro. O meglio, sono a teatro, perché il tempo non c’è, eccetto un eterno stravaccato presente. Il teatro sembra un salotto rovesciato di fretta dentro un cantiere, un laboratorio pieno di ampolle. E ogni ampolla cova una battuta, come un parto involontario. Ogni ampolla è una battuta, una scheggia, uno scatto vertebrale, una cellula anarchica senza tessuti.
A noi spettatori non rimane che mescolarle, travasare una frase nell’altra: Shakespeare dentro Sofocle, Brecht in mezzo a Scarpetta, Goldoni in braccio a Genet, Alfieri in groppa a Beckett. Fino a scomporle ancora di più, a frantumare quei vetri in mille fonemi, a scordarsi nomi, titoli e trame, perché, come suggerisce un latrato di fondo, il teatro se ne frega di sé. E noi dobbiamo fare lo stesso.
Era una voce (m-)isterica, di cielo e di pancia, non si sapeva da dove provenisse. Credevamo fosse il regista, credevamo ci stesse sfidando perché comunque non avevamo neanche pagato il biglietto, eravamo soltanto occhi e orecchie infiltrati. D’un tratto ci appare Lisistrata, mascherata da Pinocchio, a sua volta addobbato da omelette, con una parrucca di riccioli vecchi e un teschio in mano. Ci dice che il regista non c’è, che non può esistere, che non esistiamo neanche noi, che lo asseriamo solo per sentirci vivi, per sentirci più sicuri, al caldo fritto delle nostre affermazioni.
E allora noi chiediamo che razza di spettacolo sia. E quello stesso timbro, che nel frattempo si è sparpagliato ovunque, come un prisma gutturale, ci risponde senza risposta, ci mima dal basso più oscuro che è il solo spettacolo possibile, quello senza razza, senza costo, senza pubblico.
Cerchiamo le sedie, perché siamo storditi, abbiamo bisogno di posizionarci per capire chi siamo, convinti che se conquistiamo uno spazio otterremo anche un ruolo. E sapremo come definirci e anche come considerarci. Sapremo qual è il nostro significato. Ma i significati sono sassi che piovono sul significante, racconta una canzone che stiamo ascoltando.
E poi le poltrone sono di carta, non possiamo appoggiarci, altrimenti si sfalderanno. Così, alcuni decidono di restare in piedi, altri fingono invece di sedersi, acconciano schiena e ginocchia come se stessero comodi. E si straziano in silenzio, contenti di aver salvato la faccia. Perché le altre parti sono già condannate. Non ricordo molto altro. Solo che girovagavo sul palco, dato che nessuno mi avrebbe cacciato, o perché forse l’avrebbero fatto qualunque postazione avessi scelto. Perché il teatro scotta, t’ingoia e ti vomita come il boccone più amaro. Il teatro è indigesto, è cattivo e furente mentre ti abbraccia, è un ciocco di legno che si lamenta. Gioca a farti sentire importante, quando invece sei meno di niente, un grumo di polvere intorno a un respiro.
Prima di svegliarmi, dieci anni fa, senza essermi mai addormentata, uno dell’audience accovacciato sul nulla, su quell’origami travestito da platea, bisbiglia che sa come si chiama quel pezzo, che ha origliato le tende mentre parlavano e che pare s’intitoli: Tutti figli di Carmelo. Allora, quella voce invisibile che non ci ha mai abbandonato, che ci ignora da sempre e ci conosce fin troppo, ulula dal ventre: «Carmelo chi? Bene Bene, andate pure. Oppure restate, tanto chi se ne accorge?»
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