“La scena perduta” di Abraham B. Yehoshua
di Paulina Spiechowicz / 12 aprile 2012
È nei meandri della creazione artistica e dell’invenzione estetica, che s’addentra Abraham B. Yehoshua con il suo ultimo romanzo La scena perduta, pubblicato sul finire del 2011 da Einaudi. Attraverso una scrittura ormai matura e sempre tendendo verso la formula del cosiddetto «simbolismo realistico» (così è stato definito il suo stile dal critico Gilead Morahg), l’autore israeliano si cimenta in una riflessione che abbraccia la sfera del visivo, cinema e pittura. Benché Yehoshua si serva di modi espressivi diversi, la sua riflessione rinvia puntualmente e anche con una vaga tendenza autobiografica alla narrazione. La scrittura è difatti un atto complesso, che richiede diversi requisiti e innumerevoli competenze, e ingloba – così come già era sotteso nei trattati di retorica antica [Quintiliano, ndr] – le capacità proprie a tutte le arti.
L’incipit del libro trova appiglio in una tela del Seicento, la “Caritas romana” di Matthias Meyvogel. La rappresentazione di un uomo morente, al quale una giovane donna tende il nudo seno per nutrirlo, accompagna lo sviluppo dell’intreccio dello scrittore israeliano. Yair Moses, un regista di cinema d’autore, ormai settantenne, ripercorre involontariamente la sua carriera a Santiago de Campostela, dove gli è stata dedicata una retrospettiva. È qui, nella sua stanza d’albergo, che scopre una riproduzione della “Caritas romana”. Il quadro innesca una serie di analogie e di ricordi che ruotano attorno alla sua produzione cinematografica e al suo rapporto – da anni interrotto a causa di una stretta similitudine con la scena rappresentata nel dipinto – con il suo sceneggiatore Trigano. Al ritorno in Israele, nasce in Yair la volontà di ristabilire questo rapporto, realizzando la scena perduta rappresentata nel quadro seicentesco.
Lo stile e il modo di scrivere di Yehoshua, quantunque si tratti di un autore acclamato e da anni in lizza per il Nobel, non è esente da critiche. Del resto è l’autore in persona ad ammetterlo, in sede di alcune interviste: ha perso definitivamente qualcosa, nei suoi ultimi libri. Manca la sottilità, l’ambiguità, una tendenza verso l’astratto proprio di uno stile ellittico che in parte aveva fatto la bellezza del suo primo romanzo, L’amante. Dice invece tanto, dice troppo, in La scena perduta. La narrazione naufraga in un surplus di parola, che si rivela superfluo alla lettura. Scrittura allora impeccabile, quella di Yehoshua, ma che ha smesso di sedurre.
L’esponente di maggiore spicco della Israeli New Wave, rimane comunque inattaccabile nella sua capacità di abbracciare la sfera dei sentimenti e delle relazioni umane. La sua analisi è intrisa di un profondo psicologismo e affronta temi quali l’amore, l’amicizia, la malattia e la morte con maestria ed eleganza. Yehoshua ci regala un libro denso e complesso. Sempre attento alle dinamiche relazionali, sociali e religiose, il libro affascina attraverso la semantica dell’espiazione, che si protrae per tutto il corso della lettura.
(Abraham B. Yehoshua, La scena perduta, trad. di Alessandra Shomroni, Einaudi, 2011, pp. 367, euro 21)
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