“Raep – racconto del presente” di Mauro Santopietro
di Cristiana Saporito / 30 aprile 2012
«Le delusioni sono unite dalla ferrovia», dentro la gola di Flavio Giurato.
E non perché chiunque, a distanza di porte e paesi, si trova a sbuffare per un convoglio in ritardo, per un arrivo sgraziato o una partenza impigrita. Come una cerniera che non fa che tossire ad ogni passaggio.
Le delusioni scorrono, come un plasma avariato, un umore di sabbia che affanna le vene, perché i treni sanno congiungere i destini.
Quando viaggiano e quando si fermano. Nello spettacolo Raep – racconto del presente di Mauro Santopietro andato in scena al teatro Argot di Roma, i vagoni si arrestano due volte, perché forse sono l’eco della stessa fermata.
Un operaio (Mauro Santopietro) muore, sprofondando nel dirupo del tratto ferroviario Roma-Napoli, nell’occhio scuro della terra. E il rumore della fine pesa quanto una caduta. Si assorbe con l’alba, sibila al vento le ultime briciole. Muore perché è facile, non ci vuole niente. E la sua opera verrà sudata altrove, sulle valli di altre mani. Con altri lamenti, che sembrano di ferro, giusto un secondo prima di evaporare.
Sullo stesso palco, tra reti e sentieri disciolti nell’aria, uno studente (Tiziano Panici) si suicida a Roma, presso la stazione della metro Tiburtina e anche lui dura l’attimo dell’urto, è il sapore di uno schianto di vent’anni, condensati nella vasca dell’impatto.
Una vita strappata, come un cerotto, su una pelle con troppe ferite. Provengono da mondi diversi, da età che i costumi inchiodano agli antipodi, ma a cucire le impronte ci pensano i binari. E un dilemma comune: il lavoro.
Perché entrambi ne sono schiacciati. Il primo procede a testa bassa, infila un gesto dopo l’altro mentre aspetta la luna, fatica, parla poco, sparge fango sui suoi giorni e inzuppa i panni di dolore.
L’altro non fa che studiare, materie lontane dalla materia, quindi non fa che ignorare la pratica, cresce allevato da illusioni di successo.
Perché l’infanzia consumista sa abituarti al meglio, te lo mostra ogni giorno, ti racconta tra le righe di uno spot la bella vita che non potrai permetterti.
È il metro in dotazione per contare i centimetri della tua felicità.
L’altro impara una lingua che lo risucchia, che gli insegna soltanto a punteggiare il suo buio di troppe etichette, a ingolfarlo di suoni sperando si rischiari. Ma il lavoro non c’è. Galleggia come un sogno sulla bocca di un inganno. Lo chiamano “lavoro”, continuano a farlo, ma quello che intendono si traduce con miseria, sfruttamento, frustrazione. È un lavoro senza attrezzi, sdentato, scoperto, vulnerabile.
Contratti di cera, che si sciolgono facili, ore malpagate, ore recintate da collane di formule.
Attività a progetto, quando il solo progetto su piazza diventa sopravvivere. E allora tutti progressi, quei chilometri di scioperi e battaglie che hanno creato lavoratori lasciandoli uomini, prima di ogni ordine e organigramma, tutto il furore fatto conquista, rischia di deragliare. O forse lo ha già fatto.
E quell’ignobile passato, notti prime prima delle lotte, adesso ci somiglia troppo. E abbiamo bisogno di jeans e cappuccio per capire quale sia il nostro tempo. Ci aiuta il rap, la favola storta e sincopata che lo studente snocciola durante la sua strada. Perché dopo una laurea inutile, un master che odora di beffa, tutte le belle parole ingoiate vanno sputate fuori.
Cercando assonanze, cercando la rima, con un gioco sottile e potente, dimostrando come i vocaboli sappiano affratellarsi, a volte più degli uomini, per costruire un senso.
«Solo opinioni mai soluzioni» è il motto di questo presente, mentre parole di luce appaiono in scena, a ricordarci quello che dovremmo essere. Mentre una lampadina oscilla dall’alto, guardata come si guarda Dio, con la stessa angoscia, con l’ansia che freme dal basso, con la paura che il cielo ci umili, o ci schiaffeggi ancora una volta. Mentre il violino all’angolo di Sina Habibi accarezza tutti i momenti, i monologhi che sembrano dialoghi e i dialoghi che in fondo sono monologhi alternati.
Una regia semplice e intelligente. Uno spazio pulsante, uno spazio a ridosso che inghiotte il pubblico. Ma il pubblico è già lì. È la stessa carne offerta in pasto al giorno dopo. È il teatro delle occasioni perdute. E di quelle ancora buone, ancora vive, per salire su un treno e trovare qualcuno o qualcosa ad aspettarci al sole.
Raep – racconto del presente
di Mauro Santopietro
con Sina Habibi, Tiziano Panici, Mauro Santopietro.
Andato in scena dal 17 al 29 aprile 2012 presso il Teatro Argot di Roma.
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