“L’uomo che guardava passare i treni” di Georges Simenon

di / 14 settembre 2012

L’estate è quasi finita e l’autunno bussa alle porte, allora immergetevi nell’atmosfera cupa che vi regalerà questo scrittore belga e sarete trasportati nell’Europa fredda e a tratti inospitale, tipica di certi paesaggi olandesi e francesi. Ho letto questo libro sulla spiaggia, sotto a un sole rovente e (forse anche per questo) ho desiderato di trovarmi al freddo gelido di certi paesi nordici in cui l’azione si svolge.

Simenon, come si sa, è famoso per i suoi romanzi gialli e per l’ispettore Maigret, tuttavia qui si tratta di altro genere, non c’è traccia di Maigret. Il protagonista di questo romanzo, che comunque del genere giallo ha qualcosa, se non altro per le sue tinte un po’inquietanti, per la creazione della suspance e del contitnuo interrogativo “come andrà a finire?”, è Kees Popinga, tipico uomo borghese, rispettabile marito e padre di famglia, le cui solide certezze un bel giorno si riveleranno non essere tali. Un fatto inaspettato infatti porterà il nostro protagonista (a cui peraltro ci si affeziona subito, forse per la sua ingenuità) a imboccare una direzione inaspettata, e a dare così alla sua vita una svolta irreversibile. Kees Popinga da quel momento intraprenderà un viaggio, anzi una fuga, che lo porterà dalla cittadina olandese in cui tutto ha inizio, per arrivare alle strade di Parigi e infine alla campagna francese. Ma anche di un viaggio mentale si tratta, ovvero  di un abbandono dell’immagine di sé, costruita finora, per la ricerca di qualcos’altro.

Simenon è stato uno scrittore instancabile e ha per alcuni versi ha incarnato una certa letteratura mitteleuropea e novecentesca, cosparsa di personaggi con qualcosa in sospeso con la società da cui provengono e che si ritrovano a dover in qualche modo lottare contro se stessi o contro un male che piano piano affiora. Simenon tuttavia è apprezabile non solo per l’analisi accurata che svolge sull’uomo e sul suo lento scivolare verso la pazzia, ma anche, e non di meno, per la descrizione di certi paesaggi e per la centralità che attribuisce all’ambiente cittadino quasi fosse esso stesso il vero protagonista del romanzo e, perché no, anche l’artefice del destino di Popinga.

 «… in fondo ciò che aveva veramente desiderato era di essere solo, del tutto solo a sapere quel che sapeva, solo a conoscere Kees Popinga, a girovagare tra la folla, ad aggirarsi fra la gente che lo sfiorava ignara e sul suo conto pensava insulsaggini, ogni volta diverse…»

 

(Georges Simenon, L’uomo che guardava passare i treni, Adelphi)

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