“I sette pazzi” di Roberto Arlt
di Michele Lupo / 29 novembre 2012
Los siete locos (I sette pazzi): già pensarlo un titolo così è a suo modo un’avventura. Roberto Arlt, scrittore argentino (Buenos Aires 1900-1942) che alcuni forse esagerando considerano fra i massimi del grande paese sudamericano, non ha goduto tuttavia di grande fortuna in vita, e per molti anni è rimasto fuori dai circuiti più accreditati e della critica e del pubblico. Nel periodo di maggiore diffusione della romanzeria sudamericana in Europa, fra gli anni ’60 e ’70, Arlt non era fra gli scrittori più frequentati. Gli si preferivano autori e lavori molto più corrivi e sentimentali – ma vero è che dopo si è fatto di peggio (i nomi li sanno tutti, la Allende, Mastretta, Sepulveda…).
Invece Arlt è uno scrittore dall’immaginazione in perenne cortocircuito, spiraliforme, al servizio di personaggi border-line che si arrotolano su se stessi e sanno raccontarsi come pochi. Almeno così accade a Erdosain, il più in vista dei sette pazzi di questo che è considerato il romanzo fondamentale (1929) dello scrittore e giornalista di Buenos Aires. Già stretto nell’angustia di una vita ai margini, senza un soldo e incline a rubare fino a quando si caccia nei guai, Erdosain è capace però di vivificarla a suo modo immaginandosela sempre peggio. Con un certo talento, bisogna dire, per scenari fra il grottesco e il surrealista (senza disdegnare il macabro), in virtù di una fantasia poco disciplinabile e cedevole piuttosto a un’iconografia nera.
«All’improvviso ebbe la sensazione di camminare sulla sua stessa angoscia trasformatasi in tappeto. Come i cavalli che, sventrati da un toro, s’ingarbugliano nelle loro stesse budella, a ogni passo che dava i polmoni restavano senza sangue».
Non mancano le goffaggini, è evidente, e qualche scivolata in un immaginario più convenzionale dovuta – lo ricorda nell’appassionata prefazione Julio Cortàzar, peraltro convinto, come del resto Borges, che I sette pazzi sia un capolavoro– alla formazione quasi avventizia di Arlt. Ma i passi involuti dicono anch’essi benissimo il carattere tortuoso che traccia la vita di Erdosain. Lui e i suoi amici – altrettanto sgangherati – per un po’ non fanno che chiacchierare (sembra di stare in un romanzo di un Bolaño, come dire, “fulminato”); ma poi provano a uscire dalle secche di un’esistenza orribile nella Buenos Aires degli anni ’20, nelle sue suburre di briganti e cialtroni in modo impensabile. All’epoca in Europa, ma anche altrove nel mondo, e da parti opposte, si favoleggiano “uomini nuovi”: lo fanno anche i sette pazzi. Intenzionati a mettere le basi per una rivoluzione definitiva, prendono a spunto la vita da pappone di uno di loro. E mettono su una catena di bordelli per finanziare il progetto. Il delirio è più lucido di quanto non si pensi, però: sanno che alla base dell’associazione sovversiva deve esserci l’obbedienza.
«È il metodo industriale […]. Il misticismo industriale […]. Lei crede che le future dittature saranno militari? Nossignore. Il militare a confronto dell’industriale non vale niente».
Era una secolo fa, più o meno. Alla finanza non c’erano arrivati, ma avvicinati sì.
(Roberto Arlt, I sette pazzi, trad. di Luigi Pellisari, Sur, 2012, pp. 330, euro 15)
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