“A Wolf in Preacher’s Clothes” di Jon DeRosa

di / 25 febbraio 2013

Davvero un bel personaggio Jon DeRosa. Detto onestamente, con un po’ di sana invidia. Trentaquattro anni, from New Jersey, origini italiane. Tatuato barista di notte a Brooklyn, quasi completamente sordo dall’orecchio destro. Chitarrista, fondatore del progetto shoegaze Aartika nel 1999. Studia canto classico indiano con LaMonte Young e Marian Zazeela. Realizza musiche per cinema e tv. Nel 2012 il grande passo, la svolta che non t’aspetti: l’esordio solista, come autore, come crooner. Una scelta coraggiosa e fortunata chiamata A Wolf in Preacher’s Clothes. Esordio fantastico, capace di presentarci un songwriter che in futuro risentiremo sicuramente. Merito d’una voce che arriva dritta all’anima e una sensibilità compositiva pari a poche. La vita di DeRosa comunica e si riflette nelle sue canzoni. La maggioranza delle storie di A Wolf in Preacher’s Clothes nasce proprio dietro al bancone del bar, tra un turno e l’altro. Siamo tra il Barfly bukowskiano e il Tom Waits di Closing Time. Una posizione privilegiata, dove osservare, comunicare e assimilare le miriadi di storie e vicende notturne, trasformandole in dolci melodie. Interessante notare come le canzoni non nascano durante le ore più nere e insonni (dove spesso molti artisti si rifugiano per comporre), ma all’alba, quando la frenesia metropolitana inizia a scemare e la tranquillità dell’imminente nuovo giorno permette al cantante di mettere per iscritto le vicende vissute. E di riflettere sui tanti aspetti della vita.

A Wolf in Preacher’s Clothes è una collezione di ritratti, più che un grosso autoritratto. Come ha ammesso l’autore – confermando l’accenno biografico-lavorativo – per lui è molto più facile parlare di sé raccontandosi tramite altri personaggi che parlare in prima persona. Probabilmente è uno strascico delle passate esperienze musicali introspettive. Birds of Brooklyn”, prima traccia e primo singolo, getta tutte le carte sul tavolo: sinuosi riff di chitarra, impeccabile base ritmica, arrangiamento strumentale coinvolgente ed emotivo, e soprattutto la voce di DeRosa, l’unica che l’ascoltatore vuole sentire per sapere come vanno a finire certe malinconiche vicende della vita. Più “spaccona” e altrettanto magnifica “True Men”, da dedicare alla donna da conquistare, dove nel ritornello viene citato il titolo del disco. La successiva “Snow Coffin” ha la partitura strumentale più struggente dell’album e un ritornello fuso al suo interno destinato a rimanere impresso per sempre. Non mancano i momenti più spensierati e felici, musicalmente più solari: “Who Decides?” vale per tutti. Dicevamo dei ritratti metropolitani, con protagonisti le tante anime da bar: “Tatooed Lady’s Blues” è il sentito pegno d’amore in chiave blues all’affascinante donna ricordata per i suoi tatuaggi. Il gran finale dell’album è chiamato “Hollow Heart Theory”. Talmente oppresso da tante sventure, il protagonista del brano, per non arrendersi, decide di appigliarsi a teorie ormai superate, come quelle della Terra cava. La performance vocale di DeRosa è talmente alta ed empatica da non meritare alcun commento.

A Wolf in Preacher’s Clothes è un disco fortemente connotato. Lo stile, la produzione e gli arrangiamenti sono tutti fedeli alla moderna scuola dei crooner. Questo lo precluderà a molti ascoltatori non avvezzi al genere. Va però detto che Jon DeRosa non è avaro di riletture e spunti molto personali, sia nelle musiche, ma soprattutto nei testi: moderni, notturni, sentiti e toccanti. Tali splendidi versi passano per la sua voce, la padrona assoluta, che certamente ammalierà anche i più lontani e prevenuti. Quindi, attendete la notte giusta. Vivetela fino in fondo. Aspettate l’alba e poi, mentre vi apprestate a tornare, iniziate ad ascoltare Jon DeRosa. Vedrete che tutto starà al posto giusto.

(Jon DeRosa, A Wolf in Preacher’s Clothes, Rocket Girl, Goodfellas, 2012)

 

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