“L’hotel azzurro” di Stephen Crane

di / 26 marzo 2013

L’hotel azzurro (Mattioli 1885, 2012) è considerato uno dei migliori racconti di Stephen Crane, scrittore e giornalista nato a Newark nel 1871 e morto a Badenweiler nel 1900, e la cui poetica si colloca nel solco del realismo letterario americano.

Sullo sfondo di un Nebraska i cui colori, forme e atmosfere si caricano di una profondità mitopoietica, il narratore individua fin dall’incipit il fulcro della propria storia in un colore, in una certa tonalità che, attraverso una similitudine ornitologica, lega insieme natura e civiltà, in una terra un tempo selvaggia e che ormai – al crepuscolo dell’Ottocento – pare essere addomesticata, normalizzata, dominata: «Il Palace Hotel di Fort Romper era intonacato d’azzurro chiaro, un colore che si trova anche sulle zampe d’una specie di airone, tale da costringere quest’uccello a proclamare la sua presenza contro qualsiasi genere di sfondo. Il Palace, allo stesso modo, sembrava gridare e ululare, tanto da far sembrare l’abbagliante panorama invernale del Nebraska niente più d’una landa silenziosa, paludosa e grigia».

Fra le pareti in legno di questo albergo che grida e ulula a un paio di centinaia di metri dalla stazione ferroviaria che ne rappresenta il principale fornitore di clienti – avventurieri, viaggiatori di passaggio, forestieri –, Crane fa dialogare tra loro i temi a lui più cari: la miseria e l’isolamento, l’emarginazione e l’intolleranza, il gioco d’azzardo; e lo fa attraverso una mano di carte finita male, giocata tra quattro sconosciuti appartenenti ognuno a un gruppo etnico, a una classe sociale (e forse a un’epoca) diversi: «uno svedese vacillante, con l’occhio svelto e una valigia da quattro soldi enorme e lucida», «un cowboy alto e abbronzato, in viaggio verso una fattoria al confine con il Dakota», «un ometto silenzioso che veniva dall’Est» e Johnnie, il figlio del proprietario dell’albergo.

Se il colpo di scena finale – risentendo, in maniera inevitabile, delle evoluzioni e delle sofisticazioni narratologiche maturate nel corso di più di un secolo di storie letterarie e, soprattutto, cinematografiche – risulta datato e per niente sorprendente, a rendere interessante il racconto di Crane è un elemento sociologico: raccontando l’incontro-scontro fra quattro personaggi (e culture) così diversi fra loro, in un Nebraska che nella sua apparentemente pacifica desolazione è il simbolo di una violenta lotta di conquista del West ormai conclusasi e sopita, L’hotel azzurro da un lato mette a fuoco la fine di un’epoca (preparando il terreno, con quasi sessant’anni di anticipo, al lirico ed elegiaco canto funebre del West che caratterizza tanti dei capolavori di Peckinpah), mentre dall’altro racconta la nascita di una nazione – gli Stati Uniti d’America – come il risultato di un brutale scontro fra culture, tradizioni e popoli diversi.

Con Gangs of New York, Martin Scorsese ci ha mostrato come la città più influente e immaginifica del pianeta sia nata nel sangue e dalla lotta fra la comunità degli irlandesi e quella dei rivali “nativi”; più di un secolo prima, Crane anticipava il regista americano raccontando la stessa storia, ma in modo più crepuscolare e intimista, attraverso una metaforica partita a carte giocata in uno sperduto albergo tinteggiato d’azzurro, attraverso un sospetto, attraverso un assassinio, mentre il West ululava e gridava la sua promessa ormai lontana e svanita, perché già nel 1898 – come dice l’uomo dell’Est – i tempi erano cambiati:
 

«Oh, non saprei, forse ha letto qualche romanzetto da quattro soldi, probabilmente s’immagina di trovarsi in mezzo a… Sapete, sparatorie, pugnalate, cose così».
«Come sarebbe?», fece il cowboy, scandalizzato. «Mica siamo nel Wyoming o in qualche posto del genere. Questo è il Nebraska».
«Giusto», disse Johnnie. «Aspetti di arrivare sul serio nel West».
L’uomo dell’Est ridacchiò. «Non è più come una volta, nemmeno lì. Ormai i tempi sono cambiati».


(Stephen Crane, L’hotel azzurro, trad. di Francesco Franconeri, Mattioli 1885, 2012, pp. 72, euro 9,90)

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