“Pista nera” di Antonio Manzini
di Anna Quatraro / 19 aprile 2013
Aosta non ha i vaporosi e cangianti tramonti romani, né un fremito ciarliero percorre le sue strade. I muri delle case valdostane spiccano nitidi fra maestosi larici e cumuli di neve, incastrando lo sguardo in un orizzonte gelido e aguzzo. Da sei mesi, il vicequestore Rocco Schiavone detesta con risentita malinconica quella terra ordinata e dedita al lavoro, senza rassegnarsi al trasferimento punitivo dall’adorata Roma.
Antonio Manzini, sceneggiatore e autore romano, ama vistosamente il salace protagonista del suo nuovo giallo Pista nera (Sellerio, 2013), e gli regala un singolare acume investigativo, ammantato da un’indole capricciosa e da un’etica senza pudori né rispetto verso i sottoposti, poiché, spiega Camilleri, «in Manzini la trama poliziesca è solo un pretesto per narrare la società».
L’irriverente Rocco reclama da subito le attenzioni del lettore, mostrando il proprio fastidio verso il delitto accaduto nella sperduta Val d’Ayas. Nei pressi della rinomata Champoluc, meta prediletta da sciatori arditi, il giovane Amedeo Gunelli percorre l’abituale scorciatoia verso la pista indicatagli dal capo Luigi Bionaz, quando le ruote del suo cingolato urtano contro un animale, o almeno così crede. Ha appena investito un uomo sepolto da uno strato nevoso. Il cadavere ha un tatuaggio inconfondibile e tra lacerti di carne e resti organici spuntano indizi determinanti, del tabacco sfuso e un fazzoletto.
Rocco coordina una squadra di inetti, fatta eccezione per il riservato Italo Pierron, presto coinvolto dal vicequestore nei suoi loschi traffici, e l’avvenente ispettrice Caterina Rispoli. La vittima, il catanese Leone Miccichè, era sposato con una donna di grande charme, Luisa Pec, il cui possesso, ragiona Rocco, giustificherebbe un delitto nell’universo illogico e iniquo delle ragioni umane, anche se l’indagine destabilizzerà la calma rassicurante e contraffatta della valle. Il freddo attanaglia il cocciuto commissario, che si abbandona a una selvatica concupiscenza adulterina, mentre la moglie si diletta in giochi lessicali e con lui vagheggia una fuga in Provenza, liberi dal suo «lavoro di merda». Rocco occupa sì una buona fetta fra le viltà e le miserie difformi di cui è testimone, ma grazie alla sua schiettezza gioiosa schernisce le ipocrisie sociali, pur accettandole con complicità.
Per paradosso, il suo linguaggio infarcito di volgarità è qualunquisticamente abile nel rappresentare i mali endemici e invisibili dell’Italia, colti nelle sembianze del perbenismo del giudice e della doppiezza egoista e edonista di Rocco. Ne risulta un cinismo virulento legato tuttavia a un’inquieta conoscenza dell’ingiustizia volontaria del male umano, poiché «in natura la morte non ha colpe». In un mondo che maschera il dolore con retorica e verità tranquillizzanti, Rocco sa di non potersi mostrare vulnerabile e impone con il suo ateismo pragmatico la curiosità verso i fatti, riuscendo grazie a una sfrontatezza spontanea e bonaria a non annegare nei cerchi disperati e sgraziati che uniscono i destini umani.
Senza eccessi di mestizia, Manzini accoglie nella sua prosa tersa un silenzioso mal di vivere, un rapporto coniugale ossidato e il perplesso rimpianto di essere altrove, mostrando con delicatezza l’umanità di un perdente. Formatosi con Camilleri presso l’Accademia Nazionale dell’Arte Drammatica, l’autore padroneggia il poliziesco e i tempi comici; pur rispettando i vincoli del genere, la narrazione ostruisce il passaggio ai cliché, né le ripetizioni e le scene più convenzionali (le cene con gli amici in primis) inabissano un’autentica capacità di raccontare col sorriso le manchevolezze umane.
(Antonio Manzini, Pista nera, Sellerio, 2013, pp. 278, euro 13)
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