“L’ultima fuggitiva” di Tracy Chevalier
di Linda Pietropaoli / 16 maggio 2013
Tracy Chevalier è tutt’altro che sconosciuta al grande pubblico della narrativa contemporanea. Di certo in molti si ricorderanno di lei per il best-seller La ragazza con l’orecchino di perla (1999), da cui è stato poi tratto l’omonimo film. Ora, a tre anni dalla pubblicazione del suo precedente libro, Strane creature, la Chevalier torna con L’ultima fuggitiva (Neri Pozza, 2013).
La scrittrice americana ci ha ormai abituato a una serie di suoi topoi peculiari: il protagonismo delle donne anzitutto (e volutamente non le definiamo eroine, espressione secondo noi non solo restrittiva, ma anche, in questo caso, inadeguata), l’attenzione a particolari scorci della storia dell’umanità, colti dall’autrice secondo punti di vista assolutamente originali, e infine il suo stile: piano, scorrevole, in un certo senso rassicurante.
L’ultima fuggitiva è una storia ambientata nell’America degli anni ’50 dell’800, gli anni fervidi ma più che mai duri del tramonto dello schiavismo e delle lotte abolizioniste. Su questo sfondo in divenire si muove la figura esile e incerta di Honor Bright, giovane quacchera inglese di Bridport che, trascinata dalla più inquieta e temeraria sorella, decide di imbarcarsi per l’America, desiderosa di porre tra lei e il suo passato scialbo e indefinito quanti più chilometri possibile. Terribile si rivela per la protagonista il viaggio attraverso l’oceano, che, costringendola a settimane di reclusione e malessere, le dà subito la misura dell’avventatezza della scelta fatta: ora sa per certo che non potrà più tornare indietro. Ma le brutte sorprese per lei non sono finite. Infatti, appena toccata la terraferma, Honor si troverà a dover affrontare la morte della sorella, che la priverà, in un sol colpo, dell’unico motivo per cui aveva intrapreso il viaggio e della garanzia di trovare appoggio presso quello che doveva essere il promesso sposo di lei. In cambio però avrà l’opportunità unica di cambiare radicalmente la sua vita, trovando se stessa e la sua strada.
La terra in cui è approdata le appare immediatamente l’opposto di tutto ciò a cui era abituata: sconfinata, piena di pericoli, un luogo in cui persino i boschi hanno un aspetto più minaccioso, dove la gente ha modi rudi e schietti. Degli americani impara però pian piano ad apprezzare la positività, il loro senso pratico e soprattutto la capacità di saper vivere.
Mentre è intenta a ricrearsi una vita sociale, qualcosa torna a turbare il suo equilibrio: la casa nella quale vive si trova lungo il crocevia di fuga degli schiavi che, verso il Nord, inseguono il sogno di libertà. I loro occhi, il grido di pietà che emana la loro persona, non lasciano indifferente l’europea e quacchera Honor, che scopre così l’esistenza di princìpi che travalicano di gran lunga il quieto vivere, le leggi o le convenzioni sociali. Trovando un coraggio a lei prima sconosciuto, inizia allora la sua personale e silenziosa guerra alla schiavitù, fra mille rischi e non pochi dubbi e turbamenti, incarnati da un particolare personaggio, Donovan, cacciatore di schiavi, tanto attraente quanto sfrontato e senza scrupoli, di cui Honor si invaghisce.
«Il giovane annuì e le sorrise, scoprendo i denti bianchissimi, e per un attimo Honor ebbe la sensazione che stessero giocando a nascondino, in mezzo al bosco, come due bambini. Intenerita ricambiò il sorriso e rimase a guardarlo mentre correva fra gli alberi, verso il Nord e la libertà. […] Inspirò a fondo e si addentrò con Dorcas nella selva, in cerca del ruscello di cui aveva parlato il fuggiasco. […] Avanzava con passo deciso fra gli arbusti , calpestando il terreno muschioso, incurante dei graffi delle spine e del bruciore dell’ortica. Si accorse, con sorpresa, che il bosco non le faceva più così paura, né era fitto come sembrava da fuori».
L’autrice racconta una storia molto coinvolgente, di cui affascinano le descrizioni della vita in un’America ancora tutta da scoprire, delle profonde tensioni che scuotono dalle fondamenta una terra in cui confluiscono mille popoli e culture, aspettative e volontà diverse di cui vediamo nel libro profilarsi la lenta e difficile fusione. Bisogna rendere merito alla Chevalier e alle sue indiscusse doti di narratrice, capace di calare il lettore nella Storia senza ricorrere a date o grandi eventi, ma semplicemente ritraendo lo scorrere quotidiano delle cose, senza mai per questo mancare di puntualità e puntiglio storico. Così dunque le passioni travolgenti e gli amori rassicuranti, i duri inverni dell’Ohio e le giornate trascorse a preparare scorte alimentari, il raccoglimento religioso dei quaccheri, la sofferenza senza fine di un popolo, quello nero e una democrazia che a poco a poco si dipana, così come gli splendidi quilt, le tipiche trapunte inglesi, vengono fuori da quello che sembra solo un groviglio caotico di fili e stoffe. Quasi con un montaliano correlativo oggettivo, la Chevalier riesce a trovare il particolare attraverso cui lasciare impronta dell’universale: nel libro i quilt appunto, intorno a cui si stringono le donne per infilare prima al dritto e poi al rovescio i punti di generazioni e generazioni di taciti sacrifici, di mute testimonianze dell’inesorabile farsi della Storia.
(Tracy Chevalier, L’ultima fuggitiva, trad. di Massimo Ortelio, Neri Pozza, 2013, pp. 311, euro 18)
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