“Jim entra nel campo di basket” di Jim Carroll
di Luigi Ippoliti / 12 giugno 2013
«Ti sei accorto che un tossico quando è fatto a un certo punto comincia ad assomigliare a un feto?» «Sta tutto lì, bello, è il ritorno al ventre materno».
Jim entra nel campo di basket (minimum fax, 2013), raccoglie i diari di Jim Carroll, scritti dall’autunno del ’63 all’estate del ’66 e pubblicati negli Stati Uniti nel 1978.
Jim è un adolescente, ama la pallacanestro e ama farsi d’eroina. Ama sniffare colla negli spogliatoi tra un tempo e l’altro della partita e calarsi LSD. Mentre gli amici si ubriacano, lui si fa di altri acidi.
Odia quelli della narcotici, «i bastardi più stronzi e infidi che conosco, e aggiungeteci che sono anche i più corrotti», la scuola cattolica, «limone spremuto negli occhi», e il suo «lavoro di merda allo Yankee Stadium».
La vita come pallacanestro e la pallacanestro come vita, parti di una che entrano nell’altra e viceversa, fondendosi, confondendosi, deformandosi, arricchendosi. La non esistenza di un punto di confine tra i due universi, un unicum spazio-temporale-esistenziale.
La pallacanestro, mezzo per tentare una sorta di scalata sociale, un Henry Higgins involontario, con Jim nei panni un po’ stretti di Eliza Doolittle: come quando bisognava giocare una partita «in un quartiere di lusso che si chiama Riverdale… gigantesche case private in pietra… un sacco di edera e piscina e tutto quanto», con gli avversari tirati a lucido durante il riscaldamento, facendo sembrare Jim e la sua squadra dei pezzenti – loro che non portavano le borsette «da froci con la roba dentro» e che si cambiavano al volo – e che a fine gara, dopo aver sconfitto i padroni di casa con uno scarto notevole, conquistavano tutto il pubblico avversario, ricevendo bibite gratis e pacche sulle spalle.
La dipendenza da eroina tipo Pepsi Cola («la cosa divertente è che pensavo che l’eroina non desse dipendenza e la marijuana sì»). L’eroina, unico motivo assieme alla pallacanestro e alla poesia per cui vale la pena vivere; finché piano piano la pallacanestro non si fa da parte, lasciando la ribalta alle droghe più disparate e alla discesa di Jim verso il suo inferno privato. Qualche sprazzo del rapporto con i genitori, la guerra del Vietnam, sedicenti marxisti, la necessità di prostituirsi per tirare su qualche soldo, la Grand Central Station che starebbe sulla Guida di New York per pervertiti, se solo esistesse una guida del genere.
Una girone dantesco che Jim si è costruito da solo, tutto apposta per lui, evitando appositamente di installare uscite di sicurezza, modi per scappare: anche solo delle finestre con le grate. Sarebbe tutto inutile: l’unico modo per fuggire da se stesso sono un canestro attaccato al muro e una scorta d’eroina.
Si dice spesso che chi pensa che lo sport, la pallacanestro in questo caso, sia solo sport, non ha mai capito granché. Ecco: Jim entra nel campo di basket non può che esserne un’ulteriore conferma.
(Jim Carroll, Jim entra nel campo di basket, trad. di Tiziana Lo Porto, minimum fax, 2013, pp. 208, euro 10)
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