“Addio a Berlino” di Christopher Isherwood
di Roberto Nugnes / 24 giugno 2013
«Domani parto per l’Inghilterra. Tornerò qui tra qualche settimana, ma solo per prendere le mie cose prima di lasciare Berlino per sempre». Con queste parole, Christopher Isherwood si concede in prima persona in Addio a Berlino (Adelphi, 2013), conclusione amara e silenziosa di un intensissimo soggiorno berlinese.
Lo scrittore arriva nella capitale tedesca alla fine della repubblica di Weimar, dove sono ancora visibili, e forti, l’agiatezza e lo splendore ritrovato dell’epoca d’oro di Stresemann, dopo le nefaste vicende della grande guerra. Isherwood è attirato dalle luci scintillanti dei cabaret, dei seminterrati adibiti a palcoscenici, dove si esibiscono guitti, ricchi signori, artisti squattrinati e libertini, in una versione europea e molto più decadente degli americanissimi ruggenti anni Venti.
Lo scrittore inglese, nei suoi anni a Berlino, intraprende un doppio esercizio di scrittura, e contrappone al suo terzo romanzo, Mr Norris se ne va (Einaudi, 1993), la scrittura del suo più personale diario di quel periodo, dove in prima persona, e da grande intellettuale, racconta, riporta e analizza uno dei momenti più importanti e tragici del Novecento, ovvero il tramonto della repubblica di Weimar e l’avanzata nazista. In quegli anni la città tedesca è un grande crocevia di viaggiatori, intellettuali, politici, tutti mossi da una curiosità storica che in quel momento non aveva ancora dato le sue tragiche conclusioni.
La fauna che incontra Isherwood è a dir poco sopra le righe, da inquilini alloggiati presso le dimore di anziane signore, trasformatesi in affittacamere, a rampolli dell’alta borghesia; dai fugaci incontri notturni, ai rapporti umani più intensi e duraturi; tra questi, su tutti, spicca la personalità di Sally Bowles, giovane cantante di cabaret e aspirante attrice, spigliata, avventuriera, arrivista, pronta a tutto pur di consacrarsi a sparuti attimi di ricchezza materiale.
Isherwood racconta con lucidità le persone e i cambiamenti sociali che la Germania, e tutta l’Europa, stavano vivendo in quegli anni. Con grande ironia e perspicacia, lo scrittore si sofferma soprattutto su come il popolo medio si sia pian piano assuefatto all’avanzata nazista, giudicata in un primo momento con superficialità, paragonata a poco meno che a manifestazioni folkloristiche, analizzando e riscontrando una certa riprovevole e pericolosa imparzialità. E colui che è imparziale durante uno scontro, quasi sempre, alla fine, parteggerà per il vincitore, il sopravvissuto, che sia esso angelo o demonio. Meglio vivo che sopraffatto devono aver pensato in tanti in quel momento, dopo che di punto in bianco, la marcetta di giovani fanatici in uniforme, con svastiche in bella mostra, divenne qualcosa di diabolico e irreversibile.
Isherwood punta il dito verso coloro che sono stati silenti spettatori, quasi divertiti, di ciò che in molti ritenevano nient’altro che una pagliacciata, e da grande intellettuale previene, annuncia. L’autore quindi conclude che un tempo allegro, fatto di cabaret, caffè e risate sguaiate, e musica, e fumo, e alcol, e pensieri, sta giungendo al termine.
Le ultime pagine di Addio a Berlino sono una lunga e lenta dissolvenza, in cui ogni riga sembra corrispondere alla chiusura d’una luminosa finestra, di un unico grande e fumoso cabaret, come si serravano le grandi case prima di partire per le vacanze estive, lasciandosi alle spalle le stanze vuote. Una vacanza mai interrotta: «I tram, e la gente sui marciapiedi hanno un’aria curiosamente familiare; assomigliano in maniera impressionante a qualcosa che in passato ci è apparso normale e piacevole», che si ripiega su un’amara e struggente constatazione esistenzialista: «No. Ancora adesso non riesco a credere che tutte queste cose siano accadute davvero».
(Christopher Isherwood, Addio a Berlino, trad. di Laura Noulian, Adelphi, 2013, pp. 252, euro 18)
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