“Carte false”: a tu per tu con Valeria Luiselli
di Dario De Cristofaro / 5 agosto 2013
Roma, quartiere Flaminio, un pomeriggio di fine giugno. Fa caldo e diventa difficile capire il senso dei numeri civici di viale Pinturicchio, soprattutto quando si è in ritardo. Ho un appuntamento in una caffetteria di zona per intervistare Valeria Luiselli, giovane scrittrice messicana, in Italia per presentare Carte false (La Nuova Frontiera, 2013), suo libro d’esordio, secondo da noi, dopo Volti nella folla (La Nuova Frontiera, 2012). La riconosco subito, nonostante gli occhiali scuri attraverso cui, come mi dirà in confidenza, quasi a volersi scusare, cerca scampo dai postumi del jet lag. La sua gentilezza nei modi mi tranquillizza e decidiamo di iniziare l’intervista senza interpreti: io faccio le domande in italiano, lei mi risponde in spagnolo. E funziona – confesso di aver avuto più difficoltà con alcuni scrittori nostrani.
Valeria, per prima cosa vorrei chiederti: come nasce il titolo Carte false e qual è il senso del libro?
Come per tutti i miei libri ho sempre valutato un grande numero di titoli possibili, e per Carte false il titolo definitivo è arrivato proprio alla fine. I significati sono molteplici, ma devo dire che il libro è concepito quasi come fosse una serie di carte geografiche, oppure come una serie di documenti falsi, delle carte d’identità false. Ho iniziato a scriverlo quando sono arrivata a Città del Messico, dove sono nata ma dove non ho mai vissuto, e sentivo il bisogno di descrivere e raccontare gli spazi di quella città per provare a renderli miei. Da qui l’idea del testo come un passaporto, una carta d’identità per sentirmi parte di un determinato luogo. Inoltre il libro stesso mi ha portato a viaggiare, in particolare il penultimo viaggio che ho fatto è stato a Venezia, dove, come racconto, mi sono ammalata e dove, per curarmi, ho vissuto una curiosa peripezia burocratica.
Dunque hai concepito fin dall’inizio Carte false come un testo unico che raccogliesse testi eterogenei…
Sì, ho sempre avuto in mente di raccogliere tutto in un volume unico, anche se ovviamente durante i quattro anni di gestazione del libro l’idea originaria si è andata modificando. I saggi in esso contenuti nascono in momenti diversi ma conservano spesso collegamenti con il testo precedente o successivo.
Parlami invece della brevità dei testi raccolti. Ho notato che se da un lato quasi ti neghi la possibilità della divagazione esplicativa, dall’altro raggiungi una maggiore puntualità dell’intuizione…
Credo sia il riflesso del mio modo di pensare. Prima di scrivere prendo molti appunti, faccio disegni, scatto fotografie, poi quando decido di stendere il mio pensiero gli dedico momenti brevi, ma ripetuti, di grande concentrazione; non ho la scrittura torrenziale di altri scrittori, né passo il tempo a rileggere e correggere ciò che ho già scritto.
Uno dei capitoli che mi ha colpito di più è quello sui relingos. In particolare alla fine del capitolo fai delle bellissime descrizioni in cui paragoni ogni scrittore a uno spazio che tu immagini e concludi dicendo: «E tutto quello che non abbiamo letto, un relingo, il vuoto nel cuore della città». Potresti spiegare il parallelismo fra i relingos fisici della città e quelli della letteratura?
Per me i relingos sono degli spazi cittadini in relativo abbandono utilizzati dalle persone per vari scopi, e che guadagnano così nuova vita – ma non mi riferisco per esempio a edifici occupati, che normalmente ritornano a un uso ben definito. Allo stesso modo la lettura diventa per me uno spazio vuoto che posso utilizzare per giocare con i significati, spazi vuoti in cui respirare un po’. Un relingo è uno spazio non definito di infiniti usi possibili, e allo stesso modo un libro non letto è anch’esso uno spazio futuro che raccoglie possibilità, definizioni e significati molteplici.
Nonostante Città del Messico sia la città in cui sei nata non è la tua vera patria, dal momento che fin da piccola hai viaggiato molto; di contro nel libro ci sono molte citazioni di autori: si può dire scherzando che la letteratura è un po’ la tua vera patria?
Effettivamente mi piace giocare con quest’idea, perché è una bella metafora, anche se spesso rimane solamente un’idea affascinante, poco concreta. Devo dire però che l’attività dello scrivere per me è stata sempre un momento in cui mi sono sentita a casa, qualunque fosse il luogo in cui mi trovavo. Ti racconto questo aneddoto biografico: la prima volta che ho provato a scrivere un libro, che poi effettivamente non era un libro, avevo sei anni e vivevo in Corea del Sud; a scuola iniziai a scrivere questa storia un po’ surreale con le parole d’inglese che stavo imparando; le associavo in maniera casuale e inventavo delle storie. Lo scrivere quindi è sempre stato per me un modo di sentirmi a casa.
Ho letto che hai mosso delle critiche alla narrativa sul narcotraffico, tipica di una parte degli autori messicani contemporanei, in particolare hai sottolineato il suo essere un po’ di maniera.
In effetti mi sono pubblicamente pronunciata contro una certa letteratura sul tema. Non di tutta, perché penso che i giornalisti come Diego Osorno abbiano svolto un lavoro importantissimo in Messico in questi anni denunciando e svelando i disastri del narcotraffico. Quello che non mi piace è il proliferare di un certo tipo di romanzi un po’ frivoli incentrati sul narcotraffico, mi sembra un attaccamento parassitario a una situazione grave del mio paese, il cui risultato è quello di perpetuarne un’immagine esagerata e commerciale. È un modo facile di farsi pubblicità e guadagnare.
Di contro, ti si potrebbe accusare di dedicarti a una scrittura non impegnata – anche se a mio parere le analisi che fai sono profondamente segnate da un taglio sociale. Qual è quindi in breve la tua concezione di scrittura?
Beh, è una domanda difficile, potremmo parlarne tutta la sera, ma se dovessi riassumere in poche parole, rischiando di risultare un po’ banale, direi che il valore fondamentale della scrittura è l’onestà. Non voglio dire che uno non possa scrivere romanzi o inventare storie, ma di base ci deve sempre essere onestà. La risposta è corta e sembra frivola, bisognerebbe parlarne a lungo!
Per concludere, ci puoi dire quali sono i tuoi progetti futuri? Stai lavorando a un altro libro?
Sto rivedendo e sistemando un romanzo breve che scrissi qualche tempo fa a puntate. Ogni settimana inviavo un piccolo capitolo a una fabbrica di succhi di frutta in Messico. Una fondazione si preoccupava di stamparlo in varie copie e consegnarlo agli operai della fabbrica, che lo leggevano e in gruppo lo commentavano e lo criticavano. Le registrazioni audio di queste riunioni mi venivano inviate a New York, dove le ascoltavo e sulla base delle riflessioni nate scrivevo il capitolo successivo. Sono stati dei mesi molto divertenti e ora sto trasformando tutto questo in un libricino. Inoltre, già da qualche anno, sto scrivendo un romanzo sul Sudafrica, ma è un progetto che mi occuperà ancora qualche tempo.
Fuori dalla caffetteria Roma ha preso ormai il colorito tipico delle sue sere d’estate. Il caldo se n’è andato portando con sé la pesantezza del giorno e anche viale Pinturicchio appare ora meno ostile. La presentazione inizierà di lì a breve. Ho ancora qualche minuto per fare tardi, un’altra volta.
(Valeria Luiselli, Carte false, trad. di Elisa Tramontin, La Nuova Frontiera, 2013, pp. 114, euro 15)
Si ringrazia Giacomo Sauro per la traduzione scritta dell’intervista.
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