“Garrincha” di Ugo Riccarelli
di Chiara Gulino / 19 settembre 2013
Prima di lasciarci il 21 luglio scorso, Ugo Riccarelli – di recente proclamato vincitore del Premio Campiello 2013 con L’amore graffia il mondo – ha fatto un ultimo regalo al suo pubblico di lettori: un testo dal genere non ben definito tra teatro e narrativa, breve ma intenso come fu la vita del personaggio che dà il titolo al libro, Manuel Francisco dos Santos, detto Garrincha, ossia passerotto, per via di quelle gambette storte dalla poliomielite.
«Aveva due gambette storte e magre come le zampe dei passerotti. Due stecchini che non avrebbero mai potuto farlo correre. Eppure sorrideva. Seguiva con gli occhi i bambini giocare, mentre se ne stava seduto. Sorrideva e sembrava felice».
Garrincha (Perrone, 2013) è una storia di povertà come ce ne sono tante nelle favelas brasiliane.
È la storia di un ragazzo nato povero e malato e morto solo e alcolizzato. Ma è anche una storia di riscatto.
Un’operazione riuscita a metà e la tenace riluttanza del padre ad arrendersi a quella condizione del figlio riusciranno a fare di Garrincha una delle più forti ali destre della storia della nazionale verdeoro. Mané, diminutivo di Manuel, conquistò infatti ben due mondiali (Svezia 1950 e Cile 1962), stordendo gli avversari con la sua finta, sempre la stessa ma così efficace che tutti ci cascavano e rimanevano guardare il vuoto mentre quel piccoletto storpio andava via palla al piede: «Le gambe di Pelé sono perfette, hanno la pelle lucida e tesa, i muscoli ben marcati e armoniosi. Le ha disegnate Michelangelo […], le gambe di Mané invece erano due legni di vite, ritorte come la vita dei disgraziati. Lo scherzo di un pazzo che si prende gioco del destino. Erano le stesse dei poveracci delle favelas e per questo loro lo hanno amato così tanto. Quelle brutte gambe ingannavano ogni avversario e correvano felici verso la vittoria».
Introdotto da un testo dal taglio poetico e nostalgico, debitore a mio avviso del suo maestro Tabucchi, l’opera vera e propria vede l’inscenarsi di un dialogo fra fratello e sorella.
Così ne parla Riccarelli in un’intervista: «Il testo teatrale Garricha […] nasce dall’incontro che ebbi negli anni Novanta con il regista Claudio Neri il quale, affascinato dalla cultura brasiliana, volle metterne in scena alcuni temi tipici: povertà, riscatto, senso del destino. La vicenda è ambientata in una stanza, è chiusa e asfittica come chiuso e asfittico è l’orizzonte dei due poveri protagonisti, fratello e sorella, che pensano di poterlo allargare ma vengono ricacciati costantemente indietro, nel loro ambiente, anche perché hanno pensato di uscirne attraverso la furbizia e la delinquenza».
Ugo Riccarelli si rivedeva in Garrincha, nel suo corpo provato dalla malattia, ma soprattutto nella sua capacità di inventarsi un’altra vita: Mané diventando quel funambolico folletto sbilenco osannato dai tifosi, tutto estro e fantasia che rispondeva con l’allegria agli impervi ostacoli dell’esistenza; Riccarelli allo stesso modo con la letteratura, l’arte come sola dimensione in grado di aprire alla totalità del vivere.
(Ugo Riccarelli, Garricha, Giulio Perrone Editore, 2013, pp. 78, euro 10)
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