L’eroe senza nome: “Le Premier Homme” di Albert Camus
di Arianna Di Fratta / 26 ottobre 2013
Ciò che ha contribuito a rendere Le Premier Homme un manoscritto incompiuto di successo – si parla di ben 300.000 copie vendute – è la sua tragica ma al tempo stesso assurda storia. Il 4 gennaio 1960, Albert Camus muore in un tragico incidente d’auto. In seguito alla sua scomparsa, nella borsa che lo scrittore portava con sé, viene ritrovato un manoscritto non ancora terminato. Venuto a conoscenza della triste notizia, Sartre scrive su France-observateur: «Pour tous ceux qui l’ont aimé, il y a dans cette mort une absurdité insupportable. Il faudra apprendre à voir cette œuvre mutilée comme une œuvre totale». Pertanto, la figlia Catherine Camus decide pazientemente di decifrare la piccola e incomprensibile scrittura del padre e di far pubblicare il manoscritto presso l’editore Gallimard, nella collezione Cahiers Albert Camus, nel 1994.
Essendo Camus tra gli autori più fraintesi e incompresi della storia della letteratura francese (si è deliberatamente omesso il titolo di “filosofo”), non stupirà che anche questo manoscritto abbia subito molte interpretazioni controverse. I più si limitano a leggerlo come un’autobiografia o una confessione dell’autore, altri si prestano a interpretarla come l’ennesima presa di posizione di Albert Camus rispetto alla situazione politico-economica dell’Algeria e dei suoi rapporti controversi con la Madrepatria.
La verità è che Le Premier Homme – Il primo uomo in italiano – è una confessione d’amore. Non la costruzione di un mito, non amore passionale, non costruzione di un pensiero filosofico. No, puro e semplice amore.
Amore nei confronti della madre e dello zio che lo hanno cresciuto e hanno reso Jacques Cormery – e non Albert Camus come molti critici si ostinano a leggere tra le righe – l’uomo in carriera che sembra essere diventato. Un amore viscerale nei confronti di una madre quasi muta, soggiogata dal carattere imponente di una nonna tiranna e impavida, tormentata all’idea dell’onore, del lavoro e del sacrificio. Una madre che ama un figlio che l’ha abbandonata ma non l’ha mai dimenticata, fedele al proprio destino e a una Terra che non le ha dato le certezze di cui aveva bisogno.
Amore per una terra incompresa, amore per gli eroi che la popolano e le restano fedeli, uomini come suo padre e suo zio che nascono, crescono, lavorano e seguono il proprio cammino di vita senza porsi troppe domande. Uomini che combattono guerre che non gli appartengono e subiscono odio e violenze di cui non conoscono né l’origine né la fonte. Primi uomini in quanto esseri originali e veri. Il mito non diventa altro, non è estraneo alla realtà ma si fa realtà stessa. Uomini che scoprono passo dopo passo la propria vita, senza avere una guida o un punto di riferimento. Dei nuovi “Adamo” abbandonati dal Dio che professano, ma che lottano e vanno avanti senza arrendersi. Uomini come il professore che passano la vita a educare con rigore, che confidano nel futuro di ragazzi apparentemente senza speranza. Uomini che danno speranza a famiglie che credevano di averla perduta. Uomini che credono ancora nell’ambizione e nei sogni dei più piccoli, senza accusarli di presunta ingenuità.
Jacques Cormery torna indietro non tanto per ritrovare le tracce di un padre perduto da sempre, bensì per ritrovare se stesso. Jacques ha bisogno di staccarsi dalla civiltà alla quale si è ancorato per ritornare alla civiltà primordiale, quella vera, alle sue radici. Per ricordare. Ricordare l’amore che provava quando ancora non era un francese acquisito, quando anch’egli era un primo uomo, e non un pied noir. Quando correva sulla spiaggia, sfuggiva alle punizioni della nonna, quando giocava a calcio e doveva riparare le suole delle scarpe per usarle ancora, ancora e ancora un’altra volta.
Le Premier Homme è un album di ricordi, una riscoperta di sé, una sincera dichiarazione d’amore al suo passato e ai componenti che l’hanno reso tale. Sbaglia chi crede di poterlo leggere attraverso un singolo punto di vista. Sbaglia chi limita la vista a quel tema, a quel dettaglio, a quell’episodio. È proprio l’incompletezza dell’opera che la rende ancora più godibile, più gustosa, più vicina al vissuto di Jacques – e non di Albert Camus. Perché l’autore non voleva che venisse interpretata come una semplice autobiografia, e le sue intenzioni vanno rispettate. C’è anche del romanzo, una mémoire volontaire se si vuole utilizzare la terminologia proustiana. C’è una scelta specifica, uno scarto tra i ricordi: non a caso molti elementi non coincidono perfettamente con il puzzle biografico che alcuni critici hanno sapientemente ricostruito.
Camus non teorizza, racconta. A volte, si ha l’impressione che l’autore si abbandoni a fiumi e fiumi di parole dimenticando totalmente la punteggiatura (aggiunta, tra l’altro, da chi ha ribattuto a macchina il manoscritto originale). Le immagini sono vivide, vive, sotto gli occhi di chi legge. Non è come ne La Peste o ne La caduta. Non sono le Chroniques Algériennes. L’Algeria vive di profumi, colori, stagioni. Il lettore sente il caldo appiccicoso sulla pelle, il ronzio delle mosche, il sonno forzato del bambino. Tutto è intensificato e netto – e in questo è vivo il romanesque, la firma d’autore. Ma si tratta di un romanesque gradevole, non imposto, spontaneo ma controllato. Un roman autobiographique così come inteso da Philippe Lejeune: l’autore inserisce del suo senza però farsi risucchiare dalla sua stessa opera. Tra l’altro – come ricorda bene Jean Rousset nel suo saggio Forme et signification –l’artista è il suo stesso creato. Pertanto, non è necessaria un’autobiografia tout court per ritrovare la vita di chi scrive. Basta il sentore, perché il lettore è – citando Rousset – «tutto antenne e sguardi».
In definitiva, perché leggere quest’opera, per giunta incompiuta? Perché è l’elemento che completa il ciclo. Finalmente, si ha a che fare con un Camus libero dagli schemi e dalle paure, più maturo, più rilassato. Paradossalmente, anche più completo nonostante l’opera non lo sia. Perché il finale non c’è e rende il ciclo già stabilito dall’autore, assurdo come egli stesso aveva sempre teorizzato nei suoi saggi. Ma l’absurde questa volta vince, conquista, stupisce.
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