“Lightning Bolt” dei Pearl Jam

di / 28 ottobre 2013

Erano quattro anni che i Pearl Jam non si facevano vivi. Tra progetti solisti con gruppi paralleli e album suonati solo con l’ukulele, il gruppo di Seattle non tornava a comporre da troppo tempo.

Arruolato di nuovo il produttore Brendan O’Brien dietro la console, Eddie Vedder e soci tornano con il decimo disco certamente più rilassati, ma sempre con quella grinta che appartiene loro e con quella voce che canta di libertà e voglia di riscatto che solo Vedder sembra possedere.

Durante la lavorazione del disco avevano promesso chissà quale sperimentazione e nuovo processo compositivo. Su questo si sono smentiti, l’album è il perfetto seguito del loro precedente Backspacer, da cui provengono anche delle outtakes.

Veniamo alle canzoni, che appaiono molto varie fra loro. “Getaway” è un buon inizio ma sicuramente più un power pop che una vera e propria canzone rock. 

“Mind Your Manners” fa pensare molto alla loro vecchia “Spin the Black Circle”, con un ritornello che ricorda alcuni di quelli epici degli Iron Maiden: sicuramente non uno dei loro singoli migliori. 

“My Father Son” non ha niente a che vedere con certe composizioni di Vedder – che parlano della sua storia più personale – e francamente non colpisce più di tanto.

Ma ecco che con “Sirens” il gruppo si fa perdonare, perché quando Eddie canta di storie d’amore andate a finire male, difficilmente ne sbaglia una: è la canzone che ti rimane nella testa, capace di far diventare buono un album mediocre, insieme a qualche altra manciata di discrete composizioni. Fra queste citiamo “Lightning Bolt”, il pezzo che ti aspetti dai Pearl Jam: un rock ben suonato e tirato, con un finale cantato da brividi.

Da qui in poi il disco diventa strano. La seconda metà dell’album è forse la parte più sperimentale. “Infallible” è un buon riempitivo, mentre “Pendulum” può essere considerata la sorpresa dell’album: Ament /Gossard firmano un brano sulle oscillazioni proprie della natura umana, dando vita a una canzone che fa pensare ad alcuni momenti oscuri della band, come quello da cui è derivato il loro disco più cupo, Riot Act, di qualche anno fa.

Veniamo poi a “Swallowed Whole” di cui garantiamo l’ottima resa live nei prossimi concerti, mentre la successiva “Let the Records Play” è un blues elettrico da ascoltare, che porta i Pearl Jam verso strade nuove ma non poi così distanti dalla loro vera anima.

Arriviamo alle ultime canzoni: “Sleeping by Myself” è la nuova versione di un brano contenuto nel disco solista di Vedder, mentre la ballata “Future Days” conclude il disco con un testo che suona finalmente positivo e quindi anomalo per le liriche del gruppo. Un testo che sa commuovere e sembra scacciare almeno per un po’ quel male di vivere in cui si è rispecchiata, in passato, un’intera generazione di fan: «I believe and I believe ’cause I can see / our future days, days of you and me».


(Pearl Jam, Lightning Bolt, 2013, Monkeywrench/Universal)

 

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