“Un giorno scriverò di questo posto” di Binyavanga Wainaina
di Roberto Nugnes / 13 dicembre 2013
Il diario romanzato Un giorno scriverò di questo posto (66thand2nd, 2013) è fin da subito un’esplosione di colori e suoni, in cui il protagonista scrittore, Binyavanga Wainaina, ci conduce nel suo tempo passato con lucidità e distaccata passione. Si comincia sempre da un nome, come quelli dei suoi fratelli, della famiglia, degli amici, e da come proprio il nome di una persona, in quella parte di mondo, sia emblematico, come raccontano i vecchi del posto; prima c’era quello che usavano i coetanei, uno in quanto figlio di una madre, e un altro dopo esser diventato uomo. Quindi la crescita, la diversità, le prospettive che variano con il passare del tempo, le mutazioni e il ricordo che queste lasciano di sé.
Neppure la lingua è una sola, in Kenya nel 1978, quando il piccolo Binyavanga sta trascorrendo gli anni felici e curiosi dell’infanzia. La mamma parla kinyarwanda, luganda, swahili e inglese; Baba invece kikuyu, swahili e inglese, mentre i bambini, pur comprendendo gli altri idiomi locali, si concentrano esclusivamente sull’inglese, ufficialmente adottata dallo stato kenyano.
Intorno Nairobi, vibrante e ricca, un’isola felice nel bel mezzo del continente nero, circondata infatti da malumori e tragedie umanitarie che insistono nei paesi circostanti. L’Africa sembra non voler trovare armonia, e sono proprio quelli gli anni in cui si inaspriscono i contrasti razziali, economici e sociali, che avrebbero seminato odio e guerre per decenni e decenni a venire, sino ai giorni nostri.
Eppure, il presidente Moi, succeduto a Kenyatta, vero padre e fondatore della patria, non fa altro che ripetere che il Kenya è un’isola di pace, e che tutto quello che accade a pochi metri dal confine non destabilizzerà la quiete interna. La minaccia principale si chiama shifta, i banditi somali, e poi tanto altro, intorno a circondarli. Ritorna così lo scontro fra tribù, spesso mosse e fomentate da interessi internazionali ben più grandi. E quindi, inevitabilmente, anche in quella che era l’isola di pace keniana, qualcosa sta cominciando a perdersi, è in atto una dolorosa dipartita che il giovane Binyavanga è costretto a vivere sulla sua pelle.
Da subito, il ragazzo trova rifugio nei libri, nella lettura, in fuga dalla realtà sempre più asfissiante e tragica. Nasce in lui una forte presa di coscienza politica, attraverso le sue esperienze di vita quotidiana, e uno spiccato senso di analisi sociale e storica. Wainaina conosce la rinuncia, e delle costrizioni farà la propria forza, così come avviene quando le disparità sociali legate a diverse appartenenze etniche lo costringono a emigrare verso quello che era considerato, insieme alla madre patria, lo stato più occidentale dell’intero continente: il Sudafrica. Lì comincia gli studi di economia, mentre un senso di inadeguatezza si fa largo nella sua vita, appesantito da nomi, confini e tribù che lo obbligano a mostrarsi agli altri sempre e comunque attraverso etichette prestabilite.
Attraverso una narrazione limpida, lo scrittore redige un diario di quasi trent’anni di vita, con saggezza e intelligenza, ricordando, narrando e analizzando tutto ciò che i suoi occhi hanno potuto vedere e la sua mente ricordare.
«Ho letto romanzi e osservato le persone. Ho scritto quello che vedevo nella testa, ho dato forma alla realtà mettendola in un libro». La salvezza, il futuro è nelle parole, questa è l’unica cosa che sembra voler gridare Wainaina.
(Binyavanga Wainaina, Un giorno scriverò di questo posto, trad. Giovanni Garbellini, 66thand2nd, 2013, pp. 296, euro 18)
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