La terra in fiamme
di Roberto Nugnes / 30 gennaio 2014
1.
Con il respiro affannato, mia madre, nell’ultima ora d’ospedale, della sua vita, ansimante a rincorrere una disperata brezza, un nuovo sollievo. Sprofondata e pesante, schiacciata da una morte che è lì, più viva di lei, e che puzza di rifiuti sepolti, e sversamenti, che dalle discariche sono tornati su, tra i suoi piedi e le dita aperte, come una merda pestata. Intorno noi, il nostro cuore addolorato, a battiti ridotti, sbiaditi dalle luci al neon, per l’emozione di un imminente addio, che ancora strugge, in compagnia di una Madonna, che con noi sembra pregare, affranta accompagnatrice, o che forse, smorzando il sorriso, non fa altro che guardare schifata le macchie di sporco che persistono sulla parete del corridoio; circondata di preghiere e raccomandazioni, per un posto lassù, da ottenere in fretta, o in attesa che magari qualcuno presso lei interceda, per fermare il vomito di ruggine e scorie, che il ventre di mia madre moltiplica.
2.
Nelle notti d’estate la puzza era molto più forte. I camion sversavano a luci spente, e lo sapevano tutti che lì ci sotterravano l’immondizia. Quella notte eravamo particolarmente svegli, dopo aver festeggiato l’ultimo giorno di scuola. Ci riunimmo nel cortile, con le nostre biciclette fracassate, un pallone e un paio di sigarette rubate dal pacchetto di papà, per fumarle nel buio della campagna, comodamente seduti tra i rami di un arancio. Carlo, che era il più grande di noi, ci spiegava come fumarle, con la cicca rivolta verso il palmo chiuso, perché nell’oscurità il tizzone acceso sarebbe stato visibile sino al cortile, agli occhi dei nostri genitori, come soldati in guerra, per non farsi scoprire dai cecchini.
Improvvise poi due lucciole, forse tre, o magari di più, alzarsi a scatti e a intermittenza, e venir su dall’erba alta. Almeno dieci, tutte intorno, come addobbi di Natale per la terra; sembrava avessero una certa fretta, come se scappassero via.
Sulla strada di casa restai indietro, fermandomi di colpo al verso di una bufala che mai avevo sentito così greve e disperato. Tornai sui miei passi perdendomi nel campo di spighe. La bufala continuava a gridare e io a correre tra le spine con le gambe graffiate a sangue. Era lì, davanti a me, una grande ombra con le corna. E mi guardava. E continuava con quello strano verso che sembrava riecheggiare in tutta la pianura e che si mischiava con il cigolio dei camion, che dietro di noi entravano nella terra lacerata, sino a scomparire, interamente sepolti, con le loro bombe piantate fin dentro il centro del mondo.
3.
La prima camionetta arrivò all’alba e i poliziotti scesero a marciare, ballando in perfetto sincrono la danza di stivali sbattuti e manganelli, per intimorirci. L’ordine di riaprire la discarica era venuto da un po’ tutti gli uffici preposti; per quarant’anni, laggiù, avevano versato ogni cosa, da quando era ancora una cava, riempita man mano a strati di immondizie provenienti chissà da dove, con scarti e resti industriali a sostituirsi a tufo e pozzolana. Questa volta non glielo avremmo permesso, di riaprila. I poliziotti in schieramento da guerra avanzavano verso di noi; pochi contadini, un prete, qualche ragazzotto rivoluzionario e un paio di guappi che non cessavano di lanciargli contro petardi, messi lì soltanto a procurar battaglia dai pezzi grossi della malavita, che dal caos hanno sempre tratto le loro ricchezze. La carica partì, cercando di sconquassare la resistenza, che non poté far altro che indietreggiare sotto i colpi disordinati e feroci delle manganellate.
Lo stato, in combutta silente con malavita e industriali, aveva lasciato che ci inondassero di rifiuti, per anni e anni, e al momento la sola risposta che ci fornì, arrivò dal braccio armato dei suoi picchiatori.
4.
Due scatole di caffè, di quelle grandi in confezioni di latta, tostatura napoletana, il migliore, con altri due pacchi di zucchero. Poi un paio di forbici, un rotolo di scotch, un nastro e una carta per confezioni regalo.
Le mani di mia madre ponevano tutto con risaputa simmetria; aveva sempre portato zucchero e caffè quando andava a far visita alla famiglia di un defunto, una vecchia tradizione. Ultimamente ne circolava tanta di questa merce; di morti a cui far visita ce ne erano ogni mese. Alla televisione avevano detto che il tasso di mortalità nella zona era salita del settantacinque per cento, qualcuno diceva di più, e il cancro era passato a far visita a ogni famiglia.
Mentre era in cucina, nel pomeriggio d’inverno della casa vuota, a comporre la confezione dei morti, aveva già il male in corpo; e fu come prepararlo per sé stessa.
5.
Avete mai visto uscire le fiamme dalla terra? E non parlo di qualcosa di infiammabile, che per mano di qualcuno o per combustione naturale avesse preso fuoco, ma della terra stessa resa infiammabile.
Le lingue di fuoco afferrarono anche me, in una mattina d’autunno, venute fuori dall’asfalto, a ghermire le caviglie. Restai bloccato, nel bel mezzo di un incrocio, nell’ora di punta, mentre intorno, un groviglio di clacson e carni in scatola parlanti imprecavano nelle proprie bare a quattro ruote.
Le fiamme cominciarono a innalzarsi e ad avvolgermi, come le fruste di un domatore, mentre tutti presero a fissarmi, senza muoversi, morbosamente attratti, immobili, a vedermi soffocare e morire. E i bambini dalle scuole si affacciarono per vedere la torcia umana che ero diventato, nel silenzio sopraggiunto e improvviso, di quella strada che non aveva memoria di un così tragico avvenimento.
Il fuoco mi aveva ormai avvolto, e l’asfalto iniziò a spaccarsi, con lunghe e sottilissime crepe, che si diramavano verso tutte le direzioni dell’incrocio, per poi moltiplicarsi, all’incontro di altre strade, e così via per tutta la città, che in breve tempo si ritrovò squarciata e illuminata da vampe infernali. Le strade divennero burroni di lava e i corpi ad annegarci dentro, che si torcevano su sé stessi, maledicendo Dio e tutto il creato.
E di colpo mi risvegliai, già morto.
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