“Pastorale americana” di Philip Roth
di Federico Zaniboni / 4 febbraio 2014
Pastorale americana è il romanzo con cui Philip Roth ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa nel 1998.
Protagonista è Seymour Levov detto “lo Svedese”: alto, biondo, atletico, da giovane è l’eroe della comunità ebraica di Newark, che vede nei suoi successi sportivi un simbolo di speranza per la vicina fine della Seconda guerra mondiale. Lo Svedese non è solo un modello estetico, ma anche etico: è conscio del proprio ruolo, rispettoso, responsabile, ubbidiente. Incarna pienamente l’american dream, quello di una società borghese avanzata e progressista. Da adulto gestisce l’azienda fondata dal padre, sposa Miss New Jersey e insieme hanno una figlia, Merry, una bambina sveglia che ha il solo difetto di essere balbuziente. Questa è l’unica imperfezione nella vita perfetta dello Svedese, nel mondo ideale fatto di ordine e armonia che ha pazientemente costruito sulle colline del New Jersey.
Ma il regno incantato viene mandato in pezzi dalla bomba che Merry, all’età di sedici anni, fa esplodere nel piccolo paese dove vivono i Levov come forma estrema di protesta contro la guerra in Vietnam. Da quel momento inizia l’inesorabile caduta del protagonista, tormentato dal senso di colpa, incapace di darsi una spiegazione e soprattutto di comprendere dove possa aver sbagliato, lui, il padre ragionevole, sempre alla ricerca del dialogo con la figlia; nonostante i suoi sforzi, la crepa che si apre nella sfera famigliare è tanto inconcepibile quanto insanabile.
La storia dei Levov è raccolta da Nathan Zuckerman (il noto alter ego di Philip Roth), scrittore di successo ed ex compagno di scuola del fratello di Seymour, il quale rievoca la propria infanzia passata nel “culto” dello Svedese e, sentendone ancora il fascino, si accinge a ripercorrerne la parabola.
Con un pathos tragico venato di nostalgia e un’implacabile, a tratti impietosa, lucidità, Roth narra lo sconvolgimento della pastorale americana, il fallimento dell’utopia borghese fondata sulla famiglia, il lavoro, il rispetto delle regole («Cosa diavolo c’è di sbagliato nel fare le cose giuste?» chiede Seymour in un lacerante scontro con il fratello). L’irruzione della storia nella tranquilla provincia americana, l’imperialismo e il terrorismo, il crollo di un mondo che si credeva solido, coerente, innocente. L’illusione ‒ così umana ‒ di avere tutto (o quasi) sotto controllo, l’ingenuità di poter far prendere alla vita la direzione giusta, ma senza vanagloria, bensì con responsabilità e senso del dovere. «Chi è pronto ad affrontare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore? Nessuno. La tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti». Roth compie un’appassionata analisi del conflitto storico tra generazioni, ideologie, modi di vivere, della violenza strisciante nella società americana e dell’incomprensione insita in tutti i rapporti umani.
La grandezza del romanzo sta nella magistrale orchestrazione narrativa (una delle doti innegabili di Roth), nella complessità dei punti di vista e nello spirito tragico che lo permea, dove innocenza e colpevolezza si fondono e le contraddizioni non si risolvono, anzi, esplodono con tutta l’irrazionalità che lo Svedese ha sempre respinto: «Nulla di tutto questo è vero. Cause, risposte chiare, a chi dare la colpa. Ma non ci sono ragioni. Merry è costretta a essere ciò che è. Come tutti noi. Le ragioni si trovano nei libri». Ed è proprio in libri così che troviamo le ragioni per comprendere l’intima enormità di ogni esistenza e amare la letteratura che ce la rivela.
(Philip Roth, Pastorale americana, trad. it. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, 1998, pp. 458, euro 13,50)
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