La capra nera
di Veronica Galletta / 10 febbraio 2014
Il binario della ferrovia li accolse alla fine del viale alberato, dopo l’ultima curva. Silenzioso li scortò fino al posto di blocco, che passò senza essere fermato, al contrario loro, che furono invitati a scendere. Il furgone si fermò sbuffando, con un modo tutto suo di fare un ultimo saltello, come se fosse veramente l’ultimo, di saltello, e loro dovessero restare là per sempre.
Il militare a cui consegnarono i documenti aveva una divisa che non conoscevano. Nell’interminabile attesa del posto di blocco ebbero il tempo di osservarla a fondo, per concludere infine che si trattava della forza militare marocchina, e la cosa li fece sorridere. Sotto il sole di un pomeriggio estivo e continentale, loro, Ong italiana, aspettavano che i propri documenti fossero controllati da una forza di pace marocchina, nell’attesa di entrare in visita a un’enclave serba nel Kosovo albanese.
Priluzje era una delle tante enclave serbe in Kosovo, piccoli villaggi ma anche porzioni importanti di cittadine, satelliti serbi sparsi come coriandoli in un territorio ormai tutto albanese. Poco lontano Mitrovica, la città nota per gli aspetti folkloristici della contraddizione, quelli tanto cari ai giornalisti: i due popoli che si contendevano la città, divisi dal grande ponte sul fiume, presidiato giorno e notte; e i due cimiteri anch’essi separati in maniera netta, ma in modo inverso, con il cimitero serbo in territorio albanese, e il cimitero albanese in territorio serbo. Ogni funerale una piccola processione di ruote cingolate e lacrime.
Priluzje invece viveva la propria sofferenza in un raccolto silenzio di campagna.
Terminato il controllo, risalirono sul furgone per iniziare la loro visita, avviandosi lungo la via principale, una trazzera segnata da pozzanghere nere. Li aspettava il sindaco. Ai lati della strada costruzioni basse e poche persone. Un uomo con una mucca magra e annoiata al guinzaglio, un piccolo gruppo di bambini di sette o otto anni, a piedi scalzi.
Guardandoli, a Paolo vennero in mente i ragazzi della scuola dove da un paio di settimane insegnava informatica. Un edificio di quattro piani, che solo da un anno era tornato alla sua vocazione naturale. Durante la guerra era stato prigione, e prima ancora stalla, ricovero per le bestie, nei dieci lunghi anni durante i quali la popolazione kosovara aveva smesso di mandare i figli a scuola. I primi giorni, spiegare i fondamenti dell’uso di un foglio elettronico in quel contesto lo aveva messo a disagio. Ancora di più usare i bagni, le cui pareti erano istoriate di pennellate marroni, dal pavimento al soffitto: le mani degli studenti, che si pulivano come potevano. Il preside precedente era scappato portandosi via tutto quello che aveva trovato, compresa la fornitura di carta igienica. In paese si diceva che avesse rivenduto ogni cosa, fino all’ultimo rotolo, per rifarsi il tetto di casa. Nel Kosovo, alla fine della guerra, tutte le case erano senza copertura. Durante la ritirata i serbi avevano dato fuoco a tutti i tetti, con cura, uno a uno, nessuno escluso. Questo era il Kosovo ai loro occhi, distese di case con le facciate annerite dal fumo e i tetti di legno elastici, giovani, lucenti. A questo pensava Paolo mentre osservava le case di Priluzje, che i tetti ce li avevano tutti intatti, ma facevano apparire la scuola-prigione-stalla alla pari di un campus americano.
Nove strade in tutto a Priluzje, e per ognuna un rappresentante, consigliere del sindaco. Nove compreso il campo rom, che si trovava all’estremità nord del villaggio, un po’ isolato dal resto. Fango ovunque, per le strade di Priluzje, melma nera ai lati delle strade, pece collosa nella quale i piedi scalzi dei bambini affondavano. Erano diversi dagli altri bambini che aveva visto in Kosovo fino ad allora, al campo giochi per i piccoli, accanto al padre sul sellino del trattore. Erano puliti e ordinati, quelli incontrati fino a quel giorno, in un contesto in cui Paolo e i suoi compagni, con l’acqua che compariva a singhiozzo, si aggiravano ciancicati per il campo vagheggiando una doccia calda, ma anche solo un pediluvio.
Erano diversi dagli altri bambini che avevano visto in Kosovo fino a quel giorno. I bambini di Priluzje non gli correvano incontro, non sorridevano, non salutavano, come se la fanghiglia gli risalisse dai piedi, e gli invadesse la pancia, la testa, il sorriso.
Paolo e i suoi compagni capirono presto l’origine di tutto quel fango, e anche del puzzo che li aggredì all’improvviso. Il paese non aveva una fognatura, né un sistema di smaltimento dei rifiuti, e tutto si riversava in strada. La melma a formare pozzanghere tristi, la spazzatura a modificare la geografia dei luoghi, accumulata un po’ dove capitava, ma soprattutto in un grande spiazzo, vicino alla nona strada. Quella dei rom.
Il sindaco li accolse davanti al cancello della scuola elementare. Era un edificio squadrato, tenuto bene, con la facciata dipinta di giallo ocra, che solo a uno sguardo più attento si mostrava punteggiata di macchioline nere, come piccole lentiggini di vernice, che solo a uno sguardo ancora più attento si rivelavano per quello che erano: fori di proiettili. A Paolo fecero venire in mente i complicati ghirigori che le ombre delle rondini in volo disegnavano sul palazzo di fronte a casa sua. Una raffica di rondinelle nel cielo di agosto di Priluzje. Una raffica di rondinelle del tutto simile a quella che avevano trovato entrando a Sarajevo, a dieci anni dalla fine della guerra. Una raffica di rondinelle che aveva dato i suoi frutti, depositati sulle colline imbiancate di lapidi, lattiginose nella luce della mattina, che gli erano passate davanti mentre uscivano dalla città, un fotogramma che sembrava interminabile.
Il sindaco aprì il cancello e li guidò in visita all’edificio. Mostrò loro le aule, la sala professori, la piccola palestra. I pavimenti in legno ben lucidati e le pareti dipinte di verde, un verde anni ’60, acquoso, un po’ felliniano. Raccontò loro delle difficoltà dell’isolamento, della spesa che si poteva fare solo andando in treno, che portava direttamente a Mitrovica nord, quella giusta. Raccontò loro dei giovani che non sapevano cosa fare, in quella prigione a cielo aperto.
Fu allora che a Paolo venne spontaneo chiedere perché, perché accettavano di restare ancora lì, perché non andavano via, perché non si trasferivano in Serbia, dove certo le condizioni erano dure, ma almeno sarebbero stati liberi.
Fu così che Paolo sentì per la prima volta pronunciare da un serbo «Kosovo Polje», e ancora prima che il traduttore intervenisse, si ritrovò catapultato con forza dentro un libro di storia, un vecchio libro di storia, colmo di battaglie epiche, date fondamentali, eserciti valorosi e generali coraggiosi.
Fu così che il sindaco raccontò al piccolo pubblico le ragioni del loro inferno, cominciando dalla sconfitta dell’impero ottomano nel 1389, e proseguì molto, molto a lungo. Ma Paolo non ascoltava più. Guardava il sindaco parlare, il traduttore muoversi imbarazzato, spostando il peso da una gamba all’altra, lentamente, in una buffa danza.
Fu così che la battaglia di Kosovo Polje e tutto quello che ne conseguiva si srotolò davanti a lui come un enorme rotolo di carta igienica, che correva, e copriva tutto, copriva loro, copriva il sindaco e il traduttore, copriva i pavimenti in legno ben lucidati, copriva le pareti dipinte di verde, per poi uscire fuori, per le strade, copriva la mucca magra e il suo proprietario, copriva i bambini di fango. La battaglia di Kosovo Polje gli aveva riempito la testa e seccato la gola.
Paolo non disse più niente, fino ai saluti, fino al momento di risalire sul furgone per andare via. La battaglia di Kosovo Polje gli si sedette accanto, e quando passarono il posto di blocco salutò insieme a lui il militare di guardia.
Fu allora che Paolo si girò, e dal lunotto posteriore la vide: una grossa capra nera, che frugava indisturbata in cima a una montagna di spazzatura.
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