“La solitudine di un riporto” di Daniele Zito
di Cristiana Saporito / 13 marzo 2014
Chi vi scrive maneggia abitualmente merce radioattiva. Non esistono foglietti d’istruzione né sfolgoranti praterie di avvertenze. Esistono le mani e poi gli occhi e interi corridoi di pensieri. Esistono loro e il corteo di chi ci resta impigliato. Con danni imprevedibili e spesso permanenti. Persino tramandabili al futuro.
Chi vi scrive, per un’insana mistura di attrazione e mestiere, non può fare a meno di leggere.
Chi vi scrive lavora in libreria e, ovvia postilla, sta parlando di libri. Soprattutto di quella letale fattispecie che sono i romanzi. E quando s’imbatte in un oggetto simile, che per di più schiaffa sulla scena un libraio, il richiamo rischia di agganciarti i nervi. Ti sperona fin quando non t’invischi. Quindi, in questo caso, l’impatto con Daniele Zito è stato più che altro un tamponamento. Il titolo, La solitudine di un riporto (Hacca, 2013), non suggerisce granché. La copertina aggiunge solo un vecchio telefono nero, a strizzare i “dati anagrafici”. Con un filo che scavalca le dita. Il resto è da afferrare.
Il resto è la storia di Antonio Torrecamonica, libraio catanese con pochi stoici ciuffi acciambellati sulla testa. Soli come lui. È un libraio atipico, che detesta i suoi “prodotti”, che non snocciola consigli ai suoi clienti, che impiega le pagine di Anna Karenina per rimuovere incrostazioni profonde, le stesse di cui si occupa la carta igienica. Non si pronuncia perché non legge, perché ha promesso di non farlo troppo tempo prima, perché le parole impastano, aggrovigliano, intrappolano.
E sono solo sformati d’inganni. Stupido discuterne, per dimostrare di saperne, per sentirsi migliori di fronte a un altro viso. Irritante, no? Ma Antonio può permettersi di pensarla così, di ignorare o bistrattare i suoi avventori. Tanto quel negozio sopravvive comunque, al di là del venduto. Perché serve come copertura, per consegne che scottano. Il libraio è protetto da poteri di fango, da un boss che lo ha salvato/condannato.
Strappato dal manicomio perché nipote di una “Santa” e poi recintato di scaffali, senza alcuna possibilità di evadere. Semplicemente traslato, da una gabbia all’altra. Usato come pedina immobile.
Il libraio non si sposta, alterna passi sbriciolati. E non conosce vita al di là di quel bancone, di quelle copertine che gli occultano l’aria. Aspetta la valigia. Aspetta Paolo, quel “fratello” scappato da un altro lager di pazzi, che gli parla quando il telefono non squilla. E poi sparge bombe per polverizzare i vari concorrenti, soprattutto se sono Megastore. Tutto fruscia uguale, tremendamente sgangherato e atrocemente solito, finché non arriva un funerale. Che lo battezza all’amore. In chiesa incontra Irene e si scopre stregato come Florentino per Fermina. Scopre che un libro può trangugiargli il cuore e che la sua realtà potrebbe comporre altri capitoli. Ma i sentimenti deflagrano più degli ordigni, spezzano i polsi, setacciano il sangue. Ed è difficile mantenere il controllo. Soprattutto quando nessuno te lo insegna, quando i giorni contano pochi sorrisi e ancor meno docce. Quando per vivere basta un vestito soltanto: «Cinquantotto anni e nessuno con cui festeggiarli. La sua esistenza era solo piena di persone morte. Persone morte e fantasmi. Era troppo vecchio per prendere in considerazione anche l’idea di farla finita. I giovani suicidi sono belli e tragici, i vecchi che si suicidano sono brutti e ridicoli». E poi ancora: «Quei baffetti da soli non sarebbero bastati a difenderlo dal mondo. Forse avrebbe fatto meglio a coltivare una bella barbona francescana, in modo da lasciare in pasto alla cattiveria degli altri un po’ di naso e qualche avanzo di sguardi».
La vicenda s’ispessisce e poi scivola alla presa. Al male di vivere si aggiunge la malavita. Gli intrecci mafiosi diluviati un po’ dovunque, che trascendono l’insignificanza microscopica di un libraio ammattito.
E si disperdono nella normalità mostruosa dei loro olocausti. Che le forze dell’ordine non riescono a strozzare. Perché non c’è forza e non c’è ordine. Il commissario fiuta solo fantasmi e il questore arriccia il muso di fronte alla verità.
Nel suo deserto, quindi, Antonio non è l’unico. Ogni personaggio domiciliato nella trama è atomizzato quanto lui. A partire da Irene, vedova che per anni ha sposato un’assenza, per proseguire con Don Pietrino e il suo Vice, allattati col veleno, addestrati all’odio. Cani da combattimento abituati a mordere il dolore altrui, per non sentire il proprio. Ad annusare la paura sulla scorza del nemico.
Non per ucciderlo, per annientarlo.
Ben lontano da figure di libraio eroico e malinconico, come quello protagonista del romanzo di Asne Seierstad Il libraio di Kabul o dal tepore romantico di Jasmine ne La libreria dei nuovi inizi di Anjali Banerjee, il nostro Antonio punge, provoca, stizzisce, per poi schiudere l’urlo della sua fragilità. Quella di un uomo preso a calci sui sogni, per cui la pazzia non è altro che un rifugio della mente.
La lingua di Zito è schietta, amara come le esistenze che immortala, spietata anche con se stessa, con le fantasmagorie dei suoi pericoli continui. D’altronde, come si afferma nella storia, «la letteratura è sempre colpevole». Al di là dei suoi personaggi. Colpevole di tradire la realtà, di trafiggerla in mezzo alla gola e di raccontarle l’impossibile. Colpevole, quindi, come Antonio, di estrema innocenza.
(Daniele Zito, La solitudine di un riporto, Hacca, 2013, pp. 347, euro 15)
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