“Do to the Beast” degli Afghan Whigs
di Alessio Belli / 12 maggio 2014
Sedici anni di silenzio. Non pochi per chi nel suo intenso percorso ha scritto pagine meravigliose della storia dell’alternative rock. Greg Dulli e i suoi Afghan Whigs sono tornati con Do to the Beast. Il titolo dell’album si vocifera l’abbia suggerito il compagno di combriccola Manuel Agnelli, anche se a noi interessa la musica: e il risultato non è da poco.
Visti gli attuali dibattiti sul loro ritorno, qui il sunto del discorso è molto semplice e non merita troppi giri di parole: Do to the Beast è un grande album. I puristi, i malinconici bigotti e i nostalgici diranno che rinnega ancora una volta la loro base hardcore e altrettanti diranno che Gentleman era di tutt’altra pasta: ma perché non giudicare un lavoro solo ed esclusivamente per la sua qualità? Soprattutto in questo caso, dove di qualità ce ne è tanta. Merito soprattutto di quel mito chiamato Greg Dulli. Gli anni passano ma il carisma oscuro e misterioso, da maledetto in cerca di redenzione, ancora è lontano dallo spegnersi e sconfina in composizioni musicali notevoli.
Negli anni si è tenuto attivo con vari progetti e collaborazioni – Twilight Singers con Mark Lanegan vi dice qualcosa? – e nonostante qualche patina abbia iniziato a intaccare il timbro vocale, l’impeto e l’impegno sono sempre altissimi. Non c’è brano dove la voce non sia quella marcia in più, quella prova d’attore che rende un bel film un grande show. Anche perché di scene e situazioni Do to the Beast ne offre di diverse, spesso contrastanti, ma tutte affascinanti.
Specifichiamo fin da subito: nonostante alcune dipartite notevoli nella line-up (Steve Earle alla batteria e Rick McCollum alla chitarra), l’impatto musicale è possente e incisivo, e le melodie sono ancora una volta in bilico tra felicità e disperazione, dolore e dolcezza. La batteria di “Parked Outside” lo spiega alla perfezione, come anche le sferzate di chitarra, spesso contorte tra di loro in isterici riff. E qui Dulli inizia a scaldarsi. Stessa marcia per “Metamoros”, dove assolo e ritornello già si instaurano subito nella mente, senza bisogno di ulteriori ascolti.
“It Kills” è la ballata che spiana la strada a quel gran pezzo chiamato “Algiers”: da vedere il video stile far west! “Lost in the Woods” è forse il momento emotivamente più forte dell’album, ma il capolavoro assoluto deve ancora arrivare: “The Lottery”. Cari lettori, se volete un pretesto per innamorarvi degli Afghan Whigs, eccolo servito.
Ed avanti così, per un disco che tra battiti e rallentate, urla e sussurri non lascia – fortunatamente – un attimo di tregua, accontentando sia l’anima più furiosa, sia quella più malinconica e sofferta: non è forse di questo che si alimenta il rock?
Magari la prossima volta non dovremmo aspettare così tanto.
(The Afghan Whigs, Do to the Beast, Sub Pop, 2014)
Comments