“Martini Eden”, a cura di Carolina Cutolo

di / 9 giugno 2014

Il Martini cocktail come rito, come religione, come istituzione, come paradiso. È questo il senso di Martini Eden, antologia di storie brevi, pubblicata da Nutrimenti, dedicata al drink che l’IBA – International Bartenders Association vuole composto da sei parti di gin e una di vermouth per essere realmente dry, secco.

Con la curatela di Carolina Cutolo, dal 2006 bartender con attestato di primo livello dell’Associazione Italiana Barman e Sostenitori, che in una prefazione inquadra l’ottica culturale del progetto, tra sguardo rivolto, soprattutto, Oltreoceano e a consumatori storici come Hemingway e Dorothy Parker, e ricordi personali che riconducono al padre la passione per il cocktail, Martini Eden si muove tra nostalgia, quotidianità alcolica e storia d’Italia nella fantasia dei suoi sei autori.

Filippo Bologna lo rende bevanda di incontri anonimi e donne sole da raccontare in seconda persona; Gianfranco Calligarich, nel racconto più ispirato, conia il neologismo Martinalgìa per un uomo che con una cicatrice in mezzo al petto ha dovuto spingere il suo drink preferito nel vagone dei ricordi passati, insieme ad amici scomparsi e donne amate con ombrellini di carta lilla; Sapo Matteucci ricorda di quando per bere un Martini si poteva usare solo il gin prodotto a Vallombrosa e vermouth italico, perché il fascismo non sopportava lo straniero, neanche etilico; Massimo Morasso lo porta al cinema nelle lettere di Vivien Leigh al suo amore finale negli ultimi anni di vita; Filippo Tuena lo rende il liquido che incendia e idrata i dialoghi incompresi di una coppia ormai stanca, e Carolina Cutolo contribuisce raccontando un aneddoto di Bertrand Russell studente, quasi una barzelletta, sempre accompagnata dal gin.

Ognuno degli autori fornisce, in finale di racconto, la ricetta del Martini perfetto. Non ce n’è una uguale: ci va l’oliva o non ci va, con o senza nocciolo, la scorza di limone va bene o snatura, e la cipollina sottaceto, la si può mettere? E non solo: il vermouth, qual è la dose giusta? Ci si deve solo bagnare il ghiaccio, ne va messa una goccia, un’idea, un indizio?

Come ogni passione che si rispetti, ognuno la coltiva a proprio modo, secondo rituali e costumi privati che assumono la caratura del dogma; ogni versione è la definitiva, l’unica ammissibile.

C’è una nostalgia generale per un gusto di bere diverso dal cannibalismo alcolico dei cocktail a base di bevande energetiche e dei long drink buttati giù con ghiaccio e confusione con liquori comprati al discount, un gusto per la lentezza del consumo e della preparazione che Carolina Cutolo rivendica come precisione forte della sua esperienza diretta dietro al banco.

Iconico sin dal bicchiere svasato in cui va rigorosamente consumato, il Martini viene elevato a categoria culturale, ideale sollievo e sostegno di memoria ed espressione, essenza liquida del tempo. Certo, in Italia il Martini è, non se ne abbiano gli autori, soprattutto il vermouth prodotto dalla storica casa torinese, il cocktail non ha attecchito particolarmente nei consumi e se deve essere gin, prevale il tonic o il lemon. Il senso di questa celebrazione è principalmente imitazione, riferimento distante alla gloria raccontata nei film e nei libri statunitensi da confondere con il Vodka Martini «agitato, non mescolato» di James Bond e Ian Fleming. Perché il Martini, la sua proverbiale oliva (o scorza di limone, o cipollina sottaceto), sono il simbolo di un’eleganza che non c’è più, che sa di Humphrey Bogart e dei bar e dei grandi saloni di alberghi in bianco e nero.

(AA.VV., a cura di Carolina Cutolo, Martini Eden, Nutrimenti, 2014, pp. 110, euro 10)

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