“Un viaggio in Italia” di Guido Ceronetti
di Mario Massimo / 13 giugno 2014
A trentun’anni dalla prima edizione, torna Un viaggio in Italia (Einaudi, 2014) di Guido Ceronetti, con in più una nuova prefazione e qualche altro pezzo aggiunto, in coda, ai settantuno originari. Chiuso il libro, non si può non rimanere abbagliati dalla bravura, indiscussa, instancabile, che Ceronetti sfodera nel maneggiare le parole, nello sciabolare le sue frasi, nel dispiegare lo spericolato espressionismo, la sublime raffinatezza del suo lessico: lussuoso, colto, d’inesausto nitore poetico. E poetica, da poème en prose, da “prosa d’arte” primo-novecentesca, è sicuramente la logica che presiede non solo a ciascun capitolo, ma ai singoli frammenti che spesso li costituiscono, proprio come tessere di un mosaico. Ecco, appunto: frammenti. Godibilissimi, certo, e di altissimo magistero formale: se presi in sé, avulsi da un contesto pur che sia. Ed è già questa, si direbbe, la prima delle ragioni di perplessità che lascia questa fluviale, ctonia grandinata di parole, di immagini, di fuggenti inquadrature: nulla, ma proprio nulla, che dia un qualche possibile senso al loro comparirci davanti. Non nella spazialità, con un prima e un dopo, un itinerario qualsiasi… Non nelle tematiche. Che, anzi, sono in qualche caso ripetutamente, cocciutamente duplicate, come ad esempio – per non ricordarne che una fra le più insistenti – i cimiteri, con le assurdità lessicali delle epigrafi, o le stesse scritte sui muri, e la loro demenziale casualità di giustapposizione.
In realtà, un unico, vero motivo unificante, in questo diluviale iter si fa, via via, strada, in noi lettori, ed è il disgusto, la repellenza, declinata in una infinità di smorfie e di sgrignature espressive, nei confronti della pura e semplice, nuda umanità. «Sono esseri vivi?», detto di un gruppo di giovani incontrati in treno, «Non lo sono: hanno colore d’anima morta, il loro contatto mi fa ribrezzo«, e di nuovo: «La felicità è di non vedere esseri umani, una tregua al bisogno di servirsene e di servirli», o l’impegno a «resistere all’assalto della deformità e della demenza del mondo umano», sconfitta per altro dalla constatazione di aver sanguinato, come Montaigne «per i suoi calcoli italiani, […] per la bruttezza che ho visto dappertutto vincere e crescere».
Sì, quella della bruttezza, di origine soprattutto, o quasi esclusivamente, umana, è infatti la principale ossessione rappresentativa di Ceronetti: e non sembra valere nulla, ad addolcirla, nemmeno l’episodico ricomparire di sprazzi di paesaggio, visioni d’acque fluviali – l’amatissimo Po –, o quieta armonia di muri di qualche edifico sacro (edificio, si badi: che, invece, ogni manifestazione di comportamento ispirato a religiosità cristiana, anzi peggio, cattolica, non fa che attirarsi sarcasmi feroci, grevi); né, perfino, di un usuale intrico di carrugi nel più convoluto intimo di Genova, la cui immotivata bellezza risalta ancor più con le proclamate bruttezze di città del Sud: Salerno, Messina, e, con ogni prevedibilità, il caotico formicolare di Napoli, in cui «per sopportare di vivere […] ci vuole veramente un popolo di filosofi, o di incoscienti».
No, perché si torna di continuo a fissare lo sguardo sul viso dei propri simili: per precipitarsi a gridarsene differenti, a urlarne il ribrezzo: «Vorrei non aver più niente in comune con l’uomo, essere un puro pensiero che ne ignora la miseria e la figura».
Non sorprende dunque che, con queste premesse, aggirandosi «qua e là in cerca di un’Italia che fosse un segno e mandasse un suono, umanamente percepibile», Ceronetti sia infine costretto a «confessare: non l’ho trovata». Forse non poteva trovarla, catafratto dentro la sua solipsistica incapacità di sentirsi uomo fra gli uomini, con tutti i difetti, certo, le volgarità, le magagne (fino a quella, imperdonabile a suo dire, di mangiar carne di animali: ma perché mai dovrebbe risultare meno delittuosa la violenza inferta, nel bollirle, alle piante di cui egli così rigoristicamente si ciba, o ai molti fichi che ingurgita compiaciuto, nell’essere straziati dai suoi denti?) di noi altri uomini, ma pure con la – neanche evangelica: per carità! Solamente umana – disponibilità a non volergliene, per questo livoroso, acre, lutulento, eppur formalmente splendido, libro non di viaggi, ma di blasfemie della propria stessa umanità.
(Guido Ceronetti, Viaggio in Italia, Einaudi, 2014, pp. XV-365, euro 22)
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