“Ritratti italiani” di Alberto Arbasino

di / 30 giugno 2014

Diciamo la verità, era da parecchio tempo che Arbasino non occupava più i nostri pensieri di lettori. Specie chi si era a lungo nutrito della lezione di Un paese senza o dei Fantasmi italiani, e ne aveva in gran parte condiviso la diagnosi – peraltro di lungo corso, almeno dai grandi cinquecenteschi a Leopardi, a Prezzolini e a Gadda – sul tristo carattere nazionale, e molto aveva ammirato perle come LAnonimo lombardo, si era stancato di seguirne le peregrinazioni geoculturali di una volatile ma ripetitiva enciclopedia… Poi, poche settimane fa, arrivano in libreria questi Ritratti Italiani. Ti capitano fra le mani nella classica copertina della Biblioteca Adelphi, scorri l’indice e vedi una fila alfabeticamente ordinata di nomi – i ritratti del titolo –, e pensi che sì, sai quante volte ne ha già parlato e scritto l’autore dei Fratelli d’Italia, ma la insolita compostezza strutturale, la misura cifrata in poche pagine per nome, ti fa pensare a una sorta di compendio che garantisca all’oggetto un peso maggiore di quello riservato – secondo conclamato dogma espressionista – dall’autore a se stesso.

A lettura ultimata – e anche prima, visto che il libro si può leggere nell’ordine preferito – risulta evidente che Arbasino non ha smesso di essere Arbasino (come avrebbe potuto a ottant’anni?, peraltro una parte dei testi non sembra di nuovo conio e non sarebbe stato male riferirne luogo e data di edizione)e che, sfrondate le pagine dall’enumerativa aggettivazione dannunziana, il libro difficilmente potrebbe lasciare indifferenti. Per i nomi che contiene e perché sembra in un certo senso chiudere nel corposo (più di 500 pagine) sigillo della silloge la versione più amicale e ammirata della personale Kulturkritik dello scrittore.

A. M. Ripellino, Flaiano, Sanguineti, Moravia. Ottieri, Parise, Nono, Praz, Eco, Bertolucci, Delfini, De Chirico, naturalmente Gadda, ma anche Agnelli, Pertini, Moro, un centinaio per quasi un secolo di storia culturale, civile e politica di un paese che – così raccontato – non appare più “senza” ma inusitatamente ricco, sorprendente, vitalissimo…

Si diceva, le pagine più interessanti sono quelle in cui l’autore prova a mettersi da parte per lasciare emergere il biografato o l’intervistato. Il lungo articolo su Calvino, per esempio, costituito appunto da un’intervista e da un commento alle Lezioni americane, incui l’autore de Le città invisibili si staglia sulla pagina con tutta la forza composta di un’intelligenza prudente ma mobilissima, una sorta di pragmatismo debole ma nient’affatto debilitante o inerte nel leggere le cose culturali; oppure l’analisi spietata di un cinema non sempre farlocco come ritenuto dall’autore, quello di Antonioni, considerato «pseudo-cultura» (nonché uomo, il regista ferrarese, «assai noioso e permaloso»), ma certo spesso non privo di vere e proprie ridicolaggini (direi un testo obbligato per moltissima pseudo-critica cinematografica che non sa letteralmente quello che dice), o, per restare nel cinema, l’indagine su Fellini (Arbasino riconosce come capolavori  8 e ½ e La dolce vita ma per il resto non ha mai nascosto riserve su un genio – Kundera dixit – paragonabile a Michelangelo, quello vero). Distaccato (ma si tratta pur sempre di Arbasino) e perciò narrativamente più coinvolgente il memorial dedicato a Feltrinelli, amico molto amato seppure ideologicamente lontanissimo dal Nostro. Ben letto e narrato il sense of humour di un sud laconico e insospettabile ma tagliente chéz Flaiano. Laddove in certi passi scrivere di D’Annunzio (che ovviamente non ha potuto conoscere) o del mirabolante musicologo Mario Bortolotto, per Arbasino equivale quasi a scrivere di se stesso: funambolismi, stravaganze, «erudizione smisurata, proliferante», etc.  E «l’amico Pier Paolo», l’innegabile tenerezza nei suoi confronti che non gli impedisce di sottolinearne i limiti vittimistici e di narratore. Il Novecento insomma, scusate se è poco.

(Alberto Arbasino, Ritratti Italiani, Adelphi, 2014, pp. 552, euro 28)

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