[RFF9] Gli invisibili e la latitanza
di Francesco Vannutelli / 21 ottobre 2014
Ci sono invisibili che vivono in mezzo alla strada, sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno li vede, e altri che fanno una vita invisibile, muovono traffici e denaro senza essere mai riconosciuti, fino a sparire nella latitanza. Sono i protagonisti di Time Out of Mind di Oran Overman, con Richard Gere nei panni di un senzatetto, e di I milionari di Alessandro Piva, presentati entrambi nella sezione Cinema d’oggi.
George vive per la strada da ormai dieci anni. Alle spalle ha la morte della moglie, da cui aveva divorziato, per un doppio tumore al seno, un inevitabile problema con l’alcool, i rapporti complicati con la figlia e il collasso del mondo che lo definiva come uomo: via il lavoro, la casa, i documenti, gli amici. Resta solo la dignità, o meglio la sua difesa estrema. Perché nonostante il suo vagare di rifugio in rifugio, tra appartamenti abbandonati e ricoveri per indigenti, panchine e pronto soccorsi, George non ammette di essere un senzatetto. Lui sta solo «attraversando un periodo difficile» e la casa non ce l’ha «solo per il momento». Rifiuta l’evidenza della sua condizione, dei cappotti venduti per pochi spicci nonostante il freddo, del sollievo che gli dà la vodka. Segue la figlia, da lontano, la sua vita, non sa come parlarle e lei lo sa, e lo disprezza per questo e per tutto il resto. È quando entra in contatto con la realtà organizzata dei senza fissa dimora, con gli alloggi assegnati dal comune di New York, la burocrazia necessaria per essere dichiarato ufficialmente un homeless che qualcosa cambia.
È un progetto portato avanti per anni, Time Out of Mind, e fortemente voluto da Richard Gere che oltre che interprete ne è anche produttore. Lo scorso inverno le foto dell’ex sex symbol di American Gigolò in abiti di scena tra le strade di New York avevano fatto il giro del mondo. Nessuno dei passanti lo aveva riconosciuto, qualcuno gli ha dato degli spicci, persino. Il punto è che il regista Oren Overman (che aveva già lavorato con Gere in Io non sono qui, di cui era sceneggiatore), ha deciso di riprendere i suoi attori da lontano, quasi spiandoli, con un ampio uso di zoom e focali lunghe, per immergerli nella realtà e osservarli dall’esterno con fare quasi documentaristico. Non ci doveva essere un set evidente, Gere e gli altri dovevano diventare barboni, muoversi come loro nella città. È per questo che l’inquadratura è perennemente invasa da elementi esterni – rami, foglie, vetrine, finestre –, è per questo che i lunghi, ripetuti, silenzi vengono riempiti dalle conversazioni che George sente senza ascoltare per strada.
Senza essere la storia di una rinascita, anche se il finale prelude a sviluppi positivi, Time Out of Mind si limita a testimoniare la realtà dei senzatetto newyorkesi, sempre di più nelle conseguenze del cataclisma economico, e il sistema amministrativo in cui sono irregimentati, con regole precise di accesso ai dormitori e controlli rigidi, quasi militari, sui comportamenti nei centri di assistenza.
Di George si sa poco. Ha una cicatrice che gli attraversa un lato della testa, ma nessuno dice il perché. Parla continuamente di un’amica, Sheila, ma non si sa se esista o meno. Si sottrae alle umiliazioni dell’elemosina, prova a conservare un certo stile anche nelle situazioni più deplorevoli, finché non cede.
C’è poca empatia, però. Richard Gere ci prova, ma senza elementi a sostegno non c’è modo di entrare in sintonia con il suo personaggio. Overman costringe il pubblico a guardare con insistenza quegli uomini da cui di solito si volge in fretta lo sguardo, ma senza il supporto di una vera e propria trama si fa fatica a provare compassione.
In Italia, e precisamente a Secondigliano invece, Alessandro Piva parla di un altro tipo di invisibili, quei camorristi che si muovono nell’ombra, senza sporcarsi troppo le mani, fino a costruire imperi e a vederli crollare e sperimentare un altro tipo di invisibilità nella latitanza. Sono I milionari.
Marcello Cavani è poco più di un bambino quando suo padre gli muore d’infarto davanti agli occhi. A mandare avanti la famiglia ci pensa allora il fratello Gennaro, che non ha troppi problemi a sporcarsi le mani con i boss. In fretta, Gennaro diventa un uomo fidato del Faraone, uno dei capi della criminalità locale. Marcello non capisce troppo, ogni tanto si fa coinvolgere per mettere qualche soldo in tasca, ma fa finta che non ci sia niente di grave. A lui interessa di più fare la bella vita, vestirsi preciso e farsi chiamare Alendelòn. E gli interessa una ragazza, Rosaria, che riesce a conquistare e far diventare sua moglie a patto di tenere gli affari sporchi fuori di casa. Per mantenere lo stile di vita che sogna, Marcello si deve coinvolgere sempre di più con quella malavita per cui non è tagliato, come gli dice il fratello Gennaro. Finché non sarà troppo tardi per rendersene conto.
Dopo l’ottimo esordio con La capagira nel 1999, Alessandro Piva si è un po’ perso. Ha cambiato generi, città, fino ad approdare alla Campania criminale già oggetto di tanto cinema (e televisione). Alle spalle ha un libro inchiesta di Giacomo Gensini (che collabora anche alla sceneggiatura) e del magistrato Luigi Cananvale, I milionari. Ascesa e declino dei signori di Secondigliano (Strade Blu Mondadori, 2012), che racconta nascita e trasformazione delle associazioni criminali napoletane fino alle recenti faide degli scissionisti. Una specie di Gomorra minore (in termini di successo, non di rilevanza).
Sarà per concomitanza temporale, scelta delle scene, ambientazione, ma I milionari di Piva finisce per ricordare non poco la serie tratta da Gomorra targata Sky. Solo che qui non c’è il titanismo tragico dei personaggi e delle rivalità, c’è una certa superficialità, quasi trascuratezza nel descrivere i dettagli, a partire dalla gestione dello scorrere del tempo. In fondo, Alendelòn e compagni si muovono lungo circa trent’anni di storia italiana ma non c’è niente che lo sottolinei, nessun collegamento – tranne il terremoto in Irpinia del 1980 – con i fatti esterni. È una debolezza che non aiuta a capire il senso dell’ascesa, la portata dell’organizzazione camorristica. Tutto è accennato e non c’è ritmo che giustifichi lo scarso approfondimento. Riesce a raddrizzarsi nella parte conclusiva, con un paio di momenti ironici inattesi, ma in generale, con tanto cinema criminale che c’è stato negli ultimi anni, I milionari non aggiunge molto.
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