“Un giorno triste così felice”
di Lorenzo Iervolino

di / 14 novembre 2014

Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, detto o Doutor, o Magrão, per il suo fisico esile, è stato un calciatore brasiliano di importanza fondamentale nel suo paese. In Europa lo si conosce meno, o piuttosto lo si conosce male. Arrivò alla Fiorentina nel 1984, fece molto poco per farsi notare in positivo (si parlava delle sue birre e del suo ritardo di condizione, soprattutto) in una stagione in cui la Viola provava a tutti i costi a fare un grande campionato. Il brasiliano era stato preso per sostituire l’infortunato Giancarlo Antonioni, capitano e simbolo della città, più che della squadra. Non ci riuscì. Segnò poco, solo sei gol, appariva lento, fuori forma, distante dal calcio europeo. Aveva un contratto di due anni, rimase per uno solo. Si parlò di saudade, quella nostalgia sottile che prende i calciatori brasiliani lontani dal loro paese, costretti in gabbie dorate dall’altra parte dell’Oceano. La verità è un po’ più complessa. Perché Sócrates nel suo paese è stato molto di più di un calciatore. È stato l’incarnazione della possibilità di un cambiamento, di un nuovo modo di intendere lo sport e la condizione di atleta che andava oltre il semplice momento calcistico per arrivare a una rivalutazione del ruolo dell’individuo della società. Perché Sócrates, oltre che un calciatore e più che un calciatore, è stato un leader politico senza mai fare direttamente politica, un filosofo senza mai aver studiato filosofia, un pensatore con il pallone tra i piedi. È su questa dimensione extra-calcistica che si concentra Lorenzo Iervolino in Un giorno triste così felice (66thand2nd, 2014), un viaggio nella vita di un rivoluzionario, come recita il sottotitolo, perché Sócrates, a vari livelli, è stato soprattutto una novità, per il calcio e per un intero paese.

Un caso unico, il Magrão, ed era evidente fin dal nome, scelto dal padre, semplice impiegato pubblico con la passione per i libri, colpito dal Socrate della Repubblica di Platone. È il primo punto di un percorso lineare di anomalie. Fedele al fondamento del gnòthi seautòn del suo illustre omonimo, della conoscenza di sé come punto di partenza per la conoscenza del mondo, Sócrates ha la forza, giovanissimo, diciassettenne, di preferire gli studi di medicina al calcio, di imporre le proprie condizioni al Botafogo che lo fa esordire per avere il tempo per preparare gli esami.

«È stato il calciatore più intelligente della storia del calcio brasiliano», dirà di lui anni dopo Pelé, uno che qualcosa vale, nella storia del calcio mondiale. Perché Sócrates ha sorpreso sempre tutti per la capacità di vedere oltre la condizione di gioco pura e semplice. I suoi passaggi, le sue giocate, l’uso del tacco, appartenevano a un’altra dimensione calcistica perché erano l’espressione di un’intelligenza che andava oltre il campo da gioco e diventava sociale, politica. Sin da quando, poco più che bambino, vede suo padre nel cortile di casa bruciare dei libri diventati pericolosi con la nuova dittatura militare (è il 1964), Sócrates capisce che il mondo è altro rispetto al pallone e che il pallone deve essere parte di quell’altro. È con questa idea in testa che negli anni al Corinthians, i migliori e i più importanti della sua carriera, dà inizio a un esperimento di auto-organizzazione con i suoi compagni e la società sportiva per promuovere una nuova idea di calcio, non più basata su un’organizzazione gerarchica ma più vicina a un modello cooperativo. Ognuno ha un voto, ognuno partecipa alle decisioni, dal presidente al magazziniere. Non c’era solo Sócrates. C’era un direttore tecnico che si era formato come sociologo, Adìlson Monteiro Alves, e una serie di giocatori, come Casagrande e Biro Biro, pronti a seguire sempre Sócrates. Un’idea di maggiore potere decisionale per i giocatori e allo stesso tempo maggiore libertà. Vivere il calcio lontano dai vincoli dell’organizzazione in ritiri e allenamenti, senza il rigore di una vita di rinunce, e allo stesso tempo viverlo con un’attitudine nuova, pronta a partecipare a ciò che è importante per il paese, schierandosi in campo con maglie e striscioni che chiamavano il popolo brasiliano a votare, a opporsi alla dittatura rimanendo all’interno degli scarsi margini democratici concessi dal governo del generale Figuereido.

Dividendo il suo racconto in tre parti – Era presocratica: l’era degli dei; Era socratica: l’era democratica; Era postsocratica: l’era degli uomini –, Iervolino percorre la parabola calcistica di Sócrates dando spazio, soprattutto, agli anni corinthiani, mantenendo al margine anche la nazionale, di cui il Doutour è stato capitano in due mondiali, quelli dell’82 – in cui componeva un centrocampo micidiale con Zico, Falcão e Toninho Cerezo – e dell’86, per mettere in mostra soprattutto l’importanza extra-calcistica del personaggio, che in quegli anni raggiunse il punto più alto. Lo fa alternando la narrazione romanzata di momenti chiave della vita e della carriera di Sócrates con le interviste e le ricerche che ha svolto direttamente in Brasile e a Firenze, cercando tracce del Doutour tra le persone che lo avevano incontrato, anche solo per poco tempo. Ha fatto un lavoro di ricerca enorme, Iervolino, dettagliato e minuzioso, che non si appesantisce, però, dei connotati della biografia pura e semplice ma riesce a creare un incrocio di generi letterari, di finzione e documento. A tratti, rasenta l’agiografia nell’esaltazione di un personaggio che si è lasciato morire d’alcol, che in Italia ha fallito in primo luogo perché non all’altezza di un campionato ben più impegnativo di quello brasiliano, ma è la partecipazione emotiva per un racconto sentito, per un calcio impossibile che per qualche anno si è realizzato.

Nel 1983 Sócrates disse che sarebbe voluto morire il giorno in cui il Corinthians avrebbe vinto il titolo nazionale, il Brasileirão. È successo il 4 dicembre del 2011.

(Lorenzo Iervolino, Un giorno triste così felice, 66thand2nd, 2014, pp. 352, euro 17)

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