“Noi” di David Nicholls

di / 28 novembre 2014

Ci sono film indubbiamente stimati. Salici piangenti di premi, grondanti di applausi tanto da incurvarsi anche un po’. Sarebbe sciocco negarne il valore. E davanti a cotanta conclamazione ci si sente provincialmente in obbligo di incipriare un commento. E poi ci sono quei film che ci appartengono. Senza bisogno di pedigree. Semplicemente per il fatto di scorrerci sugli occhi. E poi molto più giù. Per la facilità che hanno di infilzarci la pelle. Lo stesso può dirsi per qualsiasi opera d’arte e persino delle persone.

Una faccia qualunque che non si annacqua nella folla e che all’improvviso rimpiazza l’ossigeno.

Impossibile quindi che il meccanismo sfugga ai libri. Quello che stiamo trattando è esattamente il secondo caso. Il caso di David Nicholls. Esploso nel 2009 con Un giorno e dopo altre due pubblicazioni di minor clamore, riapparso quest’anno con Noi (Neri Pozza, 2014), finalista al Man Booker Prize.

La storia in sé è alquanto magra. Douglas Petersen, biologo inglese a bordo della cinquantina, sente andare il letto in frantumi quando una notte sua moglie Connie, bella e irrazionale, dichiara di volerlo lasciare. Estrema unzione di vent’anni incollati al suo amore. Ha solo una chance da giocarsi. Una vacanza. Un Gran Tour in Europa, prova eroica e quindi ultima per salvare un matrimonio terminale e il rapporto con suo figlio, se possibile, ancora più sfiatato. Perché Albie, adolescente neghittoso, neanche a dirlo, è in simbiosi con sua madre e vede in Douglas un’ombra goffa e ingombrante, spassoso come il moscerino della frutta che il padre esaminava da ragazzo. Durante la trasferta, prevedibilmente, accade l’imprevedibile.

Ecco quanto basta. Nessuna traccia di simbolismo, nessun sentore metafisico.

La trama elementare di una vita che cigola. Di una molecola spezzata.

L’incontro improbabile tra uno scienziato tutt’altro che pazzo, ortogonale e solido, e un’artista smaniosa sfocia in un matrimonio, in cui ovviamente sono tante le bucce in cui incespicare. Le differenze prima servono per incastrarsi e poi diventano appiccicose. Trappole per topi senza odore di formaggio. Connie forse è già stanca e trova più calde altre braccia, almeno per una sera. Ma Douglas persevera.

È lei che vuole e il meglio arriverà. Magari dentro la pancia di sua moglie. Ma quel respiro nuovo si dissolve alla svelta. La piccola Jane muore in pochi giorni e loro sono lì a suturarsi il pianto, a scuotere lenzuola. A ricominciare. Poi un’altra gravidanza, nasce un figlio sano ma stavolta il problema è altrove. In Douglas che non sa conoscerlo, che resta a distanza anche quando lo abbraccia. L’equilibrio scivola e il piede conversa col baratro, senza capire come abbia fatto ad arrivarci. Tradimenti, incomprensioni, burroni generazionali e un borghese tentativo di ricucire i lembi. Attraverso un viaggio, che ovviamente dispiega più delle sue tappe. Srotola tagli, svela spalle troppo fragili e nude. Insomma, tutto di solito, niente di strano.

Perché qui, immancabilmente, arriva lo scrittore. Certamente non il primo a trattare il matrimonio come un giacimento che promette tanta carne. Impossibile stabilire che fu il primo e ipotizzare chi sarà l’ultimo. Ma nel mezzo gli esempi grondano. Da Andrew Sean Greer con La storia di un matrimonio ad Elizabeth Jane Howard ne Il lungo sguardo, passando attraverso Abraham Yeoshua e Sandor Marai.

E un bosco di infiniti altri nomi e altre storie.

David Nicholls non è stato più aggraziato o profondo di loro. Alternando memoria e presente, ha ritratto la normalità, senza avvitamenti cerebrali, doppi fondi, curve a gomito. Con la luce pulsante della vita reale, con la sua indiscussa maestria a cesellare dialoghi e a mettere in scena, da navigato autore televisivo, con un passato da attore.

Ogni stortura, ogni piccolo vizio incagliato sotto le unghie dei nostri rapporti, la mostruosa difficoltà delle cose più facili, la fatica di amare scavalcando qualsiasi giornata, tutto questo è materia di Noi.

Titolo più che inclusivo. Il chiunque di questo romanzo è il vero protagonista, le angosce prêt-à-porterdel nostro sovrappensiero. Condite da un’ironia quasi sempre più che efficace. Smaliziata e mai gratuita.

Questo è Douglas, intimorito per il futuro ingrato che attende suo figlio: «Quegli operai privilegiati tornano alle loro baracche anguste e sovraffollate, in immense megalopoli dove non si è mai visto un albero e l’aria pullula di droni della polizia, dove le autobombe, i tifoni e le bufere di grandine sono così frequenti che nessuno ci fa più caso […] E laggiù in quel gorgo infernale di violenza, povertà e disperazione c’è mio figlio, Albie Petersen, un menestrello errante con la sua chitarra e la sua passione per la fotografia, ancora fermamente deciso e non mettere il cappotto».

E il finale spunta in fretta. Dopo appena quattrocentotrenta pagine.

(David Nicholls, Noi, trad. di Massimo Ortelio, Neri Pozza, 2014, pp. 431, euro 18)

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