“12 anni schiavo” di Steve McQueen
di Francesco Vannutelli / 21 febbraio 2014
Nove candidature all’Oscar, tra cui quelle pesanti per regia e miglior film, per 12 anni schiavo, opera numero tre del già acclamato videoartista passato alla regia Steve McQueen, che dopo le proteste estreme di Hunger e la sessodipendenza di Shame torna con un racconto di schiavismo e violenza.
La storia è quella vera di Solomon Northup, violinista di colore nello stato di New York di metà ottocento, nato libero e libero in vita, con sua moglie e i suoi figli, una carriera internazionale, una casa e una reputazione da distinto signore. È una proposta di lavoro, a raggirarlo. Soldi facili promessi da due presunti impresari circensi per due settimane di tournée al loro seguito. Prima tappa Washington D.C. È lì che Solomon viene ubriacato e venduto a degli schiavisti. Senza documenti in tasca, ceduto a delle bestie che non considerano un nero un uomo, inizia i suoi dodici anni di schiavitù, costretto a mentire su e a se stesso, a non mostrarsi colto, a rinunciare alla sua umanità per sopravvivere e continuare a lottare e sognare di tornare un giorno alla vita piena e completa dell’uomo, non dello schiavo.
Gli Stati Uniti, il paese della democrazia nella comune rappresentazione, hanno un passato fin troppo recente di subumane concezioni di prevaricazione razziale, di sfruttamento e violenza basate su presunte superiorità di nascita. È il grande nervo scoperto della nazione (insieme al genocidio e alla ghettizzazione dei nativi), la macchia oscura sul paese della libertà e delle opportunità. Da circa un anno la grande industria cinematografica tenta con rinnovato vigore obamiano di espiare il peccato originale dello schiavismo portandolo in forme differenti sul grande schermo, dal biopic di Lincoln all’esplosione southern-pulp di Tarantino.
A differenza soprattutto dell’approccio politico del Lincoln di Spielberg, il britannico McQueen (che parte dalla vera biografia di Northup adattata da John Ridley) sembra interessarsi in maniera relativa al contesto storico per indagare principalmente la possibilità dell’azione umana, cercando di mostrare come si possa relativizzare la morale con l’evoluzione della civiltà e della coscienza, come il radicamento di certe convinzioni possa rendere possibile tutto e tutto giustificato. I vari strati di umanità schiavista che incontra (lo spregevole Paul Giamatti, il folle Paul Dano, il clemente Benedict Cumberbacth, il delirante Michael Fassbender, antagonista principale) sono tutti razzisti per convinzione sociale ancor prima che per convincimento personale. Il “negro” è proprietà da acquistare, nient’altro che un bene. Non c’è niente di umano nella sua sofferenza o nel suo stesso vivere. Per questo la violenza, in ogni forma, è cosa normale. Per questo diventa normale anche per gli schiavi accettare la condizione che li vuole oggetti e non soggetti e convivere con la violenza, mandare avanti la giornata intorno a un uomo appeso per il collo che tenta con la punta dei piedi di mantenere un contatto col terreno e con la vita. In questo, il protagonista Chiwetel Ejiofor (candidato assieme a Fassbender e Lupita Nyong’o) è bravissimo a rendere con la postura il passaggio dalla tranquilla sicurezza dell’uomo libero al passo incerto di chi deve sempre misurare le mosse per non ricevere punizioni.
Rispetto a Django Unchained, Salomon Northup si pone in un modo diverso nei confronti degli schiavi e degli sfruttatori. Più intelligente, colto e preparato della maggior parte delle persone che incontra, pur sforzandosi di mantenere un profilo basso, non cerca vendetta armata ma si appella alla legge, intesa sia come codice che come concetto assoluto di giustizia, attirando odio per la competenza che emana, per l’ostinazione nel voler mostrarsi uomo ed umano e non animale come lo vorrebbero. Non è solo odio razziale, è incapacità di capire che Solomon è un loro simile, un loro pari.
McQueen si concede spazi e luci alla Malick nel rappresentare la Louisiana. Lo accusano di estetizzare la violenza con gusto sadico. Si limita a mostrarla per quello che è.
(12 anni schiavo, di Steve McQueen, 2013, drammatico, 134’)
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