“Gemma Bovery”
di Anne Fontaine
Tra Flaubert e Posy Simmonds, una rilettura tutta particolare di Madame Bovary
di Francesco Vannutelli / 27 gennaio 2015
Martin Joubert aveva un lavoro in una casa editrice a Parigi, ma non era contento. I libri sono sempre stati la sua passione, ma non bastavano più. Non è più giovane, le cose con la moglie vanno in un modo strano, c’è complicità e sostegno, ma manca l’intimità. Ha un figlio che preferisce i videogiochi alla lettura. Sono passati ormai sette anni da quando ha deciso di lasciare la città per rilevare la boulangerie del padre in Normandia, alla ricerca di «pace e tranquillità», e tutto sommato sembra averla trovata. I libri, però, continuano a essere la sua più grande passione. Quando una coppia di inglesi si trasferisce a pochi metri da casa sua, la letteratura sembra irrompere nella sua vita. Sono giovani, sono belli, sono sposati da poco, e si chiamano Charles e Gemma Bovery, (quasi) come i protagonisti di Madame Bovary di Flaubert, che era stato scritto proprio lì, in Normandia. Joubert è convinto di rivedere in Gemma la Emma flaubertiana, e quando la ragazza mostra interesse per un giovane rampollo del paese tutto, per Martin, sembra andare esattamente come nel romanzo. E allo stesso tempo sembrano svanire la pace e la tranquillità.
L’anno scorso la regista francese Anne Fontaine aveva scelto Doris Lessing e Le nonne come soggetto di partenza per la sua prima produzione internazionale, Two Mothers, con Naomi Watts e Robin Wright, e il risultato era stato decisamente deludente. Per Gemma Bovery Fontaine ha deciso un approccio più trasversale alla letteratura: non direttamente Madame Bovary ma la rilettura meta-letteraria di una graphic novel di Posy Simmonds, anche co-sceneggiatrice del film.
Non c’è, in un caso e nell’altro, la volontà di rappresentare una versione moderna di Emma Bovary, non c’è l’intenzione di dipingere un’eroina, o antieroina, in panni borghesi aggiornati. Quello che è il vero tema d Gemma Bovery è la potenza dell’illusione e del desiderio. Martin Joubert, sognatore colto a disagio nella realtà urbana quanto nel rifugio rurale, si costruisce un mondo immaginario di cui diventa regista e demiurgo. Joubert è innamorato di Gemma, ma di un desiderio pudico. Non la vuole per sé: vuole che sia la sua creatura letteraria preferita e allo stesso tempo vuole proteggerla da quello che potrebbe essere il suo destino di carta. È lui a trasformare Gemma in madame Bovary, o almeno a illudersi di farlo, è lui che pilota l’incontro con il giovane Hervé, che manipola la vita della ragazza per compiere il destino del romanzo e poi per sottrarla a quella stessa fine. E Gemma, una volta capito il gioco perverso di quel signore gentile, si tira indietro, rivendica la sua identità altra dal libro, la sua umana carnalità, non la sua idealizzata dimensione letteraria.
Senza pretendere il confronto con il romanzo, Gemma Bovary è animato comunque da un eco costante di Flaubert che si sposa con l’umorismo britannico di Posy Simmons. C’è una critica discreta degli arricchiti e del cattivo gusto, delle case arredate come fossero il rifugio di geishe cresciute a Miami con un tocco alla Versace, e in conclusione dell’approssimazione britannica contro la radicale superiorità francese. Perché Anne Fontaine non perde occasione di schierarsi, comunque, patteggiando per i francesi quando c’è da essere nazionalisti, schierandosi con la sua Gemma quando si tratta di dare la colpa agli uomini.
Come già nell’altro romanzo grafico di Posy Simmonds arrivato al cinema con Stephen Frears, Tamara Drew, l’arrivo – anche se lì si trattava di ritorno – di una donna bella e straniera finisce per sconvolgere gli equilibri di una piccola realtà. È curioso come Gemma Arterton sia stata prima Tamara e ora Gemma Bovery, ormai pieno alter ego cinematografico della sensualità delle donne della Simmonds. Accanto a lei, il sempre grandissimo Fabrice Luchini dà volto e corpo a tutti i disagi di Joubert.
Funzionerebbe tutto in Gemma Bovery: il garbo dell’umorismo, la dimensione ulteriore di riferimenti letterari, il gioco con Flaubert e le fissazioni di Martin. Solo che nella parte centrale qualcosa si inceppa, cambia il punto di vista, Joubert si fa da parte e iniziamo a seguire direttamente Gemma, non più oggetto di una venerazione romanzata ma soggetto delle sue avventure extra-coniugali e delle sue delusioni. È lì che si perde di vista la commedia e subentra un livello drammatico che non appartiene del tutto al linguaggio del film e che non sa come risolversi anche quando, nel finale, le cose prendono davvero una piega drammatica.
(Gemma Bovery, di Anne Fontaine, 2014, commedia, 99’)
LA CRITICA
Un gioco letterario, una storia di illusione e di ossessione. Leggero e indeciso, Gemma Bovery si perde alla ricerca di uno stile preciso tra commedia e dramma senza capire in che modo uscire da se stesso. Come dice Gemma parlando del romanzo di Flaubert (con grande delusione di Joubert): «non succede niente, ma allo stesso tempo è coinvolgente».
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