“Kamchatka”
di Marcelo Figueras
Un luogo in cui sentirsi al sicuro. Sempre.
di Cristiana Saporito / 11 febbraio 2015
Lo puntualizzo subito, non è una grande idea. Ma io scelgo il bagno.
Mi piacerebbe propinare soluzioni spiazzanti, torrioni merlati sulla nuca di un bosco, botole sgargianti di codici algebrici, ma quando voglio potare tutti gli altri rumori, tosare per bene la mia vita sociale, io mi rannicchio lì. E sono soltanto un’inquilina che respira. Il magma della vasca, il vapore alle finestre e il raggiante imperativo di essere un semplice corpo che beve calore.
Ecco, è quella la mia Kamchatka (L’Asino d’oro, 2014). Una penisola vulcanica dove sentirsi remoti, come un tempo non più coniugato. Perché scappare spesso è un’urgenza.
Marcelo Figueras ce lo racconta a dovere. Nel romanzo che ha il nome di una formula magica.
Kamchatka, appunto. È una terra strategica, dove persino quando tutto è perduto, è quasi facile sentirsi al sicuro. Per chi gioca a Risiko è un suono familiare.
Lo fa sempre il protagonista di questa storia. Lo fa con suo padre, che padroneggia le mosse e lo costringe al declino. Ha dieci anni nel ’76 e frequenta con gioia la sua vita di bambino, a Buenos Aires.
Fin quando la mamma non lo preleva da scuola per catapultarlo nella fuga. Non sa, non capisce, ma deve tranciare ogni legame. Accantonare Bertuccio, le sue cotolette, gli odori e i pigiami dentro cui si è allungato.
E si ritrova in una casa antipatica, in una classe cattolica, ma non si dispera. Perché per lui e per suo fratello il Nano questa è anche un’occasione. Un’avventura improvvisa di reinventarsi un destino.
Un gioco, ovvero qualcosa di serissimo. E di rocambolesco. Decide di chiamarsi Harry, come il grande Houdini e come lui progetta l’impossibile. Sganciarsi dai lacci ed essere libero, anche se inscatolato dentro una cassa, anche zuppo di buio, con i polmoni sottovuoto e il fiato corroso.
La situazione si annerisce, la mamma non lavora più, il papà strepita dalle cabine del telefono e la salvezza per tutti è una promessa di cera. Non c’è abbastanza spazio per quattro cuori clandestini e una scelta incombe. La più dura, la più necessaria. Lasciarli dai nonni, lasciare a loro che restano la parola “futuro” e tutte le altre che serviranno a riempirla.
Harry e il Nano sono figli di due desaparecidos, di quegli stormi di nomi e di storie ingollati da un burrone d’oblio nel periodo tra il 1976 e il 1983 in Argentina, sotto il comando di Jorge Rafael Videla.
Trentamila oppositori cancellati dal registro, come si fa con gli errori ortografici.
Ma il romanzo di Figueras, diventato un film diretto da Marcelo Piñeyro, non è allagato dall’assenza come sarebbe facile ipotizzare o proporre. L’intenzione è esattamente l’inversa.
Gli scomparsi riemergono con il loro tepore di sogni e risate. Sono uomini, donne, adulti pieni di manie rituali e di ovvietà indispensabili, costretti a imboscarsi o, come anche avvenne, a raccontarsi diversi, a fingersi altro. Ma non sono fantasmi, non trascinano ombre e catene al loro passaggio.
Quella di Harry è una vita spassosa, malgrado tutto. Quella di un ragazzino che esplora ogni briciola, che sforna trampolini per salvare i rospi. I suoi genitori sono carnali fino all’ultimo. Sono il suo sangue, torrenti di vite dentro la sua. E non c’è dittatura che possa arginarlo.
È lui stesso a confermarcelo in un frammento splendido: «Col tempo ho capito che le storie non finiscono, in realtà. E ho una spiegazione che è in parte storica (la parte che devo a papà) e in parte biologica (la parte che devo alla mamma) e in parte poetica: di quest’ultima sono l’unico responsabile.
Io credo che le storie non finiscano, perché anche quando ormai i protagonisti non ci sono più, le loro azioni continuano ad avere effetto su chi è rimasto. Credo quindi che la Storia sia l’oceano in cui sfociano i fiumi selle storie individuali. Le vite che ci hanno preceduti ci offrono una cornice. Noi siamo il prolungamento di quelle storie, così come quelli che verranno poi prolungheranno le nostre. […]
Io credo che le storie non finiscano, perché anche quando una vita esaurisce le sue energie, dà vita ad altre vite. Un corpo morto non fa che moltiplicare la vita che vive sottoterra, perché dia frutti sulla terra e nutra i tanti che morendo daranno vita. Finché ci sarà vita in questo universo, nessuna storia finirà del tutto: si trasformerà. Quando moriamo, il racconto della nostra vita si limita a cambiare di genere: non più un poliziesco, una commedia, una storia epica, ma un libro geografia, di biologia, di storia».
Harry sa che c’è un terreno inespugnato, quella zolla di ricordo e d’amore in cui suo padre lo sconfiggeva a Risiko preparandolo a ben altre battaglie. Sa che da lì, da quella Kamchatka di scosse e di ghiaccio, può ripartire per il resto del mondo. Per il resto dei giorni.
E la sua ironia, la leggerezza invincibile che attraversano Kamchatka sono già una vittoria.
Se come scriveva Pasolini con la voce di Modugno «il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro», Harry ha le mani che strabordano. Di una famiglia mai spezzata, dell’orgoglio di farla resistere in mezzo ai colpi di chi vorrebbe strozzarla. Che ha sottratto tutto senza realmente impossessarsi di nulla.
Figueras ha dichiarato:«Ho scritto Kamchatka perché dovevo farlo. Se non lo avessi fatto sarei morto per combustione spontanea, come un personaggio di uno dei miei romanzi preferiti di Dickens».
Quindi, oltre a evitare una tragedia, abbiamo guadagnato un gran libro.
(Marcelo Figueras, Kamchatka, trad. di Gina Maneri, L’asino d’oro, 2014, pp. 369, euro 14)
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