“Sulla boxe”
di Joyce Carol Oates

Vent'anni di saggi e articoli sulla boxe, dalla penna di una grande scrittrice

di / 12 marzo 2015

Pagine scritte in molti anni di passione per uno sport (sport?) che ahimè ha smesso da un pezzo di affascinare: è la boxe vista da Joyce Carol Oates. L’intero corpo di testi dedicati all’argomento dalla grande scrittrice americana è raccolto ora in un libro edito da 66thand2nd (tradotto da Leonardo Marcello Pignataro).

Da Alì a Tyson, da Dempsey a Frazier, le vicende di molti campioni si affiancano a proposizioni fulminanti e analisi più articolate su un rito che a volte, per la Oates, merita la definizione di arte. Passione ereditata dal padre, la boxe ai suoi occhi non è metafora della vita, caso mai il contrario: «Scrivere di pugilato significa scrivere di se stessi; e scrivere di pugilato ci obbliga a indagare non solo la boxe, ma i confini stessi della civiltà, cos’è o cosa dovrebbe essere umano». Solo la presenza di un arbitro a un certo punto ha sottratto la boxe alla primitiva brutalità (Oates vi arriva ricordando esperienze del passato certo più terribili, anche definitive, com’era il caso dei gladiatori), ma la sua esibita, conclamata nudità e ferocia – occorre far molto male all’avversario, e possibilmente mandarlo per terra, non ci sono santi – ne costituiscono la nobile virtù. Nessun  «falso pudore»: crudele sì, violento non più di altri sport.

Non sono mancati i critici che hanno visto nello sguardo della Oates un romanticismo eccessivo – il paradosso è che lo dicevano quando la boxe era ancora viva, laddove oggi questo scontro archetipo estraneo alle «ingiunzioni morali» della legge ha perduto la sua aura epica. Magari la Oates non conosce la secca rudezza di un Norman Mailer (che lei non casualmente considera fra i migliori scrittori di pugilato – e non ci stancheremo di ricordare l’imperdibile racconto sul grande incontro di Kinshasa fra Alì e Foreman), ma certo non le sfugge la natura di una competizione in cui gli sfidanti mettono a nudo tutto di sé, in uno spazio a parte che ha qualcosa di sacrale e che «esiste da prima della civiltà». Chi assiste a un incontro di boxe «rivive l’infanzia omicida della razza»: per questo non è propriamente uno sport, non è un gioco alla stregua di altri passatempi. Ha da fare con la più importante passione dell’uomo, che non è l’amore ma la guerra. Lo sguardo della scrittrice è lucido e se non può non sottolineare la grandezza dell’immenso Clay-Alì si sofferma con altrettanta dedizione sul terrificante Mike Tyson, il pugile che «sul ring non pensa ma agisce d’istinto» (sul ring?) – l’ultimo fra i primi della classe a rinnovare la storia esemplare, cara alla scrittrice, di una scalata alle vette del mondo partendo da un’infanzia povera e disgraziata. Grande faticatore in allenamento, Tyson, sulla scia del maniacale – monacale – Rocky Marciano, che in vista di un match metteva fra parentesi l’intero mondo già alcuni mesi prima. Il contrario di Clay-Alì no: visto il suo stile, il magnifico ballerino poteva mica mettersi a saltellare ogni giorno – ciò non toglie che vincere come vinceva lui, alla fine gli sarebbe costata un’usura irrimediabile. In tutti i casi, l’eccezionalità dell’essere pugile sta per la Oates in un uomo che contro ogni ragionevolezza della specie, ha rinunciato all’istinto di sopravvivenza. Romantico? Forse sì, solo perché oggi appare improbabile. 

(Joyce Carol Oates, Sulla boxe, trad. di Leonardo Marcello Pignataro, 66thand2nd, 2015, pp. 241, euro 17)

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LA CRITICA

Venti anni di saggi e articoli sulla boxe, talora molto belli e alcuni mai letti in italiano, scritti da Joyce Carl Oates. Vite di campioni,  analisi sociologiche e letture estetiche di un rito potenzialmente estremo e spesso affascinante.

VOTO

8/10

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