“Wilder Mind” Dei Mumford & Sons
Tra The National e Coldplay, l'atteso e deludente terzo album del quartetto inglese
di Luigi Ippoliti / 29 maggio 2015
I Mumford & Sons nel 2015 decidono di mettere da parte Jimie Rodgers, Hank Williams, il bluegrass e il benjo, ma soprattutto decidono di mettere da parte i Mumford & Sons.
Dopo due album (Sigh No More, del 2009, e Babel, 2012), in poco più di cinque anni, che li hanno resi uno dei gruppi più seguiti in quello sconfinato universo pieno di sfumature che è il pop, con il loro terzo lavoro, Wilder Mind, il quartetto capitanato da Marcus Mumford produce un lavoro che rientra in un filone abbastanza identificabile che segue la scia di Ghost Stories dei Coldplay e che, paradossalmente (ma non tanto se si pensa che dietro questo lavoro c’è Aaron Dessner, tastierista dei The National) a certe sensazioni, appunto, dei The National. A surrogati di certe sensazioni.
E se cambiare, osare, sperimentare, cercare di esplorare, cercare di stravolgersi, di ribaltare il proprio io per arrivare a un altro io ancora più solido è, in linea teorica, un atteggiamento e un modo di fare quantomeno apprezzabile e comunque riconoscibile nella ricerca artistica – economica? – il modo in cui i quattro inglesi hanno deciso di intraprendere la svolta nella propria carriera è discutibile.
Basta prendere il brano con cui si apre l’album, “Tompkins Square Park”: dopo un intro di chitarra pescato quasi fedelmente da X&Y dei Coldplay, parte una batteria che riporta istantaneamente a un qualsiasi momento di un qualsiasi (da The Boxer, per la precisione) album dei The National. Da lì Marcus Mumford inizia a cantarci di amori che finiscono anche a Manhattan. Già a questo punto, e sono passati pochi secondi, qualcosa non va. Questa sensazione di già-ascoltato, un fastidio a volte alienante che striscia lungo il corpo per tutta la durata dell’album, silenzioso, porta spesso a confrontarci con la nostra capacità di giudizio e con le esperienze di ascolti passati, come quando in “Believe”, la seconda traccia, nel momento corale in cui i Mumford cantano «Something, say something / Something like you love me / Less you wanna move away / From the noise of this place» non possiamo non pensare che stiamo ascoltando qualcosa di valido. Qualcosa che ha motivo d’essere. Ma lo pensiamo fino a quando non ci rendiamo conto che noi quella stessa cosa, fatta quasi praticamente allo stesso modo, l’abbiamo ascoltata anni prima in Bon Iver, Bon Iver. Anche nella terza traccia, “The Wolfe”, dove la presenza di Daivd Grohl e dei suoi Foo Fighters è più che imbarazzante, incombe questa sensazione. Subito dopo la title track, “Wilder Mind”. Potrebbe essere, di nuovo, qualcosa dei The National (sostituite la voce di Mark Momford con quella di Matt Berninger e il gioco è fatto) che questa volta, in preda a una crisi d’identità, si prodigano in intrecci armonici che ricordano alcuni brani passati su MTV negli anni ’90.
Si scivola verso le dimenticabili “Just Smoke” e “Monster”, fino a “Snake Eyes”, dove i The National tornano prepotentemente. “Broad-Shouldered Beasts” alterna momenti intimi delle strofe a momenti da stadio dei ritornelli. Qui si rivedono, nel bene e nel male, i Mumford & Sons. “Cold Arms” è una ballata voce e chitarra poco interessante – per qualcosa di questo tipo, rimanendo sempre a Londra, basta bussare alla porta di Keaton Henson -, mentre “Ditmas” è senza giri di parole il peggior brano dell’album.
“Only Love” e “Hot Gates” sono la bella chiusura che Wilder Mind non meritava.
Cos’è, quindi, Wilder Mind?
Wilder Mind è un album già ascoltato, è un insieme di citazioni volute o non volute che oltrepassano costantemente il limite oltre al quale si aggira lo spettro del copia-incolla, è un insieme di di canzoni mediocri, è qualcuno che ha capito che i Mumford & Sons sono ovunque e comunque, oggi, una miniera d’oro e li ha inseriti in un altro mondo (che, alla fine, è lo stesso di quello precedente), è la demo dei The National adolescenti sbronzi nel proprio garage, è il primo album da solista di Chris Martin.
LA CRITICA
Dopo Sigh No More e Babel, tornano i Mumford & Sons con Wilder Mind, un album che si distacca completamente dai precedenti due liberandosi di quella ingenuità (forse calcolata), estetica e di contenuti, che ne ha ha caratterizzato gli esordi. Perdendo probabilmente tutto.
Comments