“Chi manda le onde” di Fabio Genovesi
Le avventure di una brigata di emarginati raccontate con un’ironia sovversiva e originale
di Giulia Usai / 11 giugno 2015
Ho iniziato Chi manda le onde di Fabio Genovesi (Mondadori, 2015) avendo l’impressione di trovarmi di fronte a una storia già letta. Un déjà-vu saltellante tra Acciaio e La solitudine dei numeri primi, o qualcosa di non troppo lontano che parli di infanzie tristi e vita di periferia viste dalla prospettiva di un giovane autore italiano che la stampa annuncia promettente.
Per le prime due parti del libro faticavo ad avanzare nella lettura: la storia mi sembrava troppo dolorosa perché valesse la pena continuare a leggerla. Come se portasse un carico eccessivo e disequilibrato di fatti e sentimenti drammatici, quasi che l’autore si fosse messo in testa di esplorare nella scrittura tutte le sfaccettature della sofferenza umana. Si parla di bullismo, dell’essere orfani, di Chernobyl, della morte in giovane età e di depressione, di insoddisfazione esistenziale e di albinismo, di insuccesso sociale e personale. I protagonisti danno l’idea di essere gli unici “giusti” in un mondo che li isola per le loro debolezze, e a renderli davvero speciali non sono doti eccezionali, solo la propria marginalità. Perciò, nonostante una trama ben calibrata, l’impressione era che al romanzo, nel complesso, mancasse un po’ di leggerezza. Non che fosse assente del tutto, questa levità, ma non la trovavo comunque sufficiente a compensare la pesantezza dei temi affrontati. Troppi, e tutti insieme.
Sul finire, però, ho dovuto ricredermi: l’intreccio ingrana con un exploit che, pur mantenendo una verve drammatica, si libera di alcuni fardelli di dolore e riesce a essere garbatamente ironico, osando addirittura uno humour nero che mi ha stupito per la sua singolarità, e per il suo riuscire a essere così distante da uno stile che sembra accomunare la letteratura italiana contemporanea e denuncia uno stato di depressione nazionale. Che lo si spieghi con il dilagare della crisi economica o con l’insoddisfazione perenne del mondo piccolo-borghese da cui la maggior parte dei suddetti autori provengono, emanciparsi da questa tendenza espressiva con uno strumento così inaspettato mi è parso geniale.
In particolare, della pittoresca brigata di emarginati sulle cui avventure si concentra l’ultima parte del romanzo, il personaggio di Ferro risulta quello costruito meglio, nella sua assurdità. Il nonno adottivo di un nipotino russo debole e radioattivo, volgare, politicamente scorretto, alcolista e fannullone, con una parola spietata per tutti e una passione poco cavalleresca per le belle donne. La sua presenza permette di alleviare i mali dell’animo degli altri protagonisti, che di fronte alla sua concretezza prosaica si vedono costretti a ridimensionare l’autocompatimento per le proprie disgrazie. Dopotutto Ferro, sputando per terra, è sempre pronto a ricordare loro che fino a che sono vivi non hanno molto da lamentarsi.
Chi manda le onde merita di essere letto anche solo per l’impegno messo da Genovesi nello scardinare uno stile di scrittura che negli ultimi anni si è sedimentato nella narrativa italiana, e ogni gesto eversivo di opposizione all’indolenza artistica va incoraggiato, celebrato.
(Fabio Genovesi, Chi manda le onde, Mondadori, 2015, pp. 792, euro 15)
LA CRITICA
Un testo che ricorre allo humour nero per raccontare il dolore, e porta una ventata d’aria fresca nel panorama narrativo italiano degli ultimi anni.
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