“Il libro delle parabole”
di Per Olov Enquist
Nove fulminanti parabole su quel perturbante mistero che è l’amore
di Chiara Gulino / 15 giugno 2015
«“Dovresti scrivere un vero romanzo d’amore, prima o poi, quello sì che mi piacerebbe leggerlo. Ma la zia mi ha detto che non ne hai mai scritti”.
“Non so scrivere romanzi d’amore”, rispose quasi con foga. “Non sono capace”».
Se lo scrittore svedese Per Olov Enquist sia riuscito a scrivere un vero romanzo d’amore o piuttosto un libro di filosofia, un’autobiografia in forma di pensiero, un manuale di terapia della coscienza, un’esperienza estatica in forma di riflessione o una pratica di ricomposizione di un trauma, è difficile stabilirlo con certezza dopo aver letto Il libro delle parabole (Iperborea, 2014).
Si tratta senza dubbio di uno scritto terapeutico, un modo per ingaggiare un confronto-scontro con le proprie pulsioni più profonde.
Quello che l’autore de Il medico di corte è ora, è frutto di una lenta costruzione, in cui tutto il suo passato, mai dimenticato e rimosso, è sempre dolorosamente presente. La memoria ci dice chi siamo e da dove veniamo. I ricordi ci danno un’identità.
Enquist inizia a scrivere Il libro delle parabole nel 1986 a Parigi, in uno dei momenti più difficili della sua vita, quando le sue giornate erano tiranneggiate dal demone dell’alcolismo e solo il suo gatto rosso di nome Kim (proprio come il protagonista del libro di Kipling tanto amato da bambino quanto proibito dalla severissima e devota Madre), con la sua calma, discrezione e sensibilità, non giudicandolo e accettandolo con i suoi difetti, era l’unico capace di infondergli fiducia in se stesso.
Arrivato alla soglia degli ottant’anni e da venti libero dal giogo di Bacco, dopo essersi già messo a nudo senza pudori nel romanzo confessione Un’altra vita (Iperborea, 2000) e con gli spettri degli amici morti che lo incalzano avvertendolo che anche il suo tempo sta per scadere, lo scrittore svedese sente il bisogno di analizzare con lo sguardo oggettivo di un anatomopatologo (di qui l’uso insolito per una autobiografia della terza persona) un episodio centrale eppure, non si sa quanto volutamente, lasciato fuori dal romanzo precedente.
Si tratta della narrazione della sua iniziazione sessuale, congedo irreversibile dalla purezza virginale all’età di 15 anni con una donna cinquantunenne, Ellen, «dai modi pacati e tristi», villeggiante nella villa di Stieg Larsson (sì proprio l’autore della trilogia Millennium) nell’estate del 1949 e da lui definita «l’esperienza religiosa forse più intensa di tutta la sua vita, se non l’unica, quella che l’aveva fatto restare aggrappato malgrado tutto, alla convinzione che il miracolo religioso fosse davvero possibile, e che un giorno l’avrebbe aiutato a sopravvivere».
La scena erotica, consumata in un afoso pomeriggio di luglio, tra il ronzio delle mosche e il crepitio della carta moschicida, su un parquet di pino, «un pavimento di legno senza nodi», è tra le scene più sconcertanti del libro al limite della blasfemia.
Infatti nel momento in cui riceve da Ellen il dono della «redenzione con libertà», lo svelamento, cioè, che ciò che rende la vita degna di essere vissuta sia questa unione quasi mistica di due corpi che si danno reciprocamente, il compimento di questo istante estatico in cui uno permette all’altro di penetrare nella sua «stanza più intima», l’adolescente Enquist si immagina l’episodio di Maria che unge i piedi di Gesù con oli profumati.
A partire da questo accadimento è possibile rileggere il proprio vissuto da una nuova prospettiva: la prematura scomparsa del padre quando aveva solo 6 anni; il riflesso che sulla sua educazione ha avuto l’angusto microcosmo familiare basato sul sistema pietistico-protestante di valori della religione materna; il dolore della bisnonna scritto con un chiodo sui muri; la dignità e il coraggio della zia malata che ripudia un Dio indifferente; la follia della cugina anche lei vittima del fanatismo religioso; l’alcolismo e i rapporti amorosi fallimentari.
Il libro delle parabole è anche un tentativo di colmare un vuoto: i nove capitoli o parabole che compongono il romanzo vogliono essere i sostituti di quelle nove pagine strappate dal taccuino in cui il padre aveva scritto poesie d’amore per la madre, taccuino gettato nelle fiamme dalla donna stessa obbediente al Dio intransigente del Vecchio Testamento.
È soprattutto la figura della madre una presenza-assenza centrale, con la sua rigidità da maestra elementare e guida spirituale della comunità di Hjoggböle, paese natio dell’autore.
Modulando la propria voce sulla falsariga della predicazione evangelica, Enquist si fa sacerdote, non, come avrebbe voluto la madre, di una religione che non ammette l’amore e il desiderio come istinti umani insopprimibili, ritenendoli invece come corruttori dell’anima, bensì di una religione in cui «L’amore era difficile da afferrare quanto Dio».
(Per Olov Enquist, Il libro delle parabole. Un romanzo d’amore, trad. di Katia De Marco, Iperborea, 2014, pp. 256, euro 15,50)
LA CRITICA
Ne Il libro delle parabole c’è la storia personale dell’autore stesso, scritta con una lingua sublime di vivace naturalezza e favoleggiante liricità. Una vita scritta come una parabola sulla ricerca del Senso da dare all’amore.
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