Se l’ultimo uomo sulla terra è uno scrittore

"Dissipatio H. G." di Guido Morselli

di / 16 luglio 2015

La fine del mondo di Guido Morselli è solo una trovata narrativa, volutamente trita, e per questo attraversata con noncuranza (provocatoria) verso la possibilità della descrizione limpida, lineare e allucinata di una situazione irreale ma presente, viva; un paradosso senza psicologismi che solo l’universo delle possibilità può offrire. Una realtà pura e semplice, affermata e dunque tale.

Dissipatio H.G. è l’ultimo romanzo scritto da Morselli e pubblicato, come tutta la sua opera, postumo. Ne trovo uno in una libreria di Piazza Mazzini (Roma), una vecchia terza edizione del 1979 e mi metto a leggerla incuriosito; passano alcuni giorni e davanti i miei occhi di lettore si consuma la trama più banale del mondo, un uomo, uno scrittore, una sera decide di farla finita, si reca in una cava lontano da tutto e da tutti e prova ad affogarsi ma all’ultimo momento un pensiero banale, una speculazione sulla qualità del brandy francese, gli rovina i piani, torna mezzo stordito e barcollante a casa, fa l’amore con l’idea di spararsi un colpo e alla fine si addormenta. L’indomani, è l’ultimo uomo rimasto sulla terra, semplicemente. Alcuni segnali stabiliscono la scomparsa (dissipatio) del genere umano (humani generis), in giro sono rimasti solo gli animali, il loro mondo parallelo non sembra essere sconvolto più di tanto, mentre degli uomini non rimangono nemmeno i corpi, si sono volatilizzati, appunto, dissipati nel nulla.

Il protagonista comincia così una ponderosa e solipsistica ricerca, in realtà poco convinta, dei suoi simili, imbattendosi solo in voci registrate e presenze mute. Lungo tutto il corso del libro non si capaciterà mai pienamente della sua nuova condizione, quella del superstite in bilico fra essere ora l’Umanità con la maiuscola, ma anche l’ex-uomo, esemplare di una razza senza più alcun significato.

Ma il Morselli-voce-narrante del suo ultimo scherzo con la morte non è solo un uomo, è anche, e disperatamente, uno scrittore, che ogni tanto prova goffamente a mettersi sulla macchina da scrivere, ma che in realtà non sa risolvere gli estremi di un mestiere che, come tutta la sua vita, si è fatto paradossale, senza possibilità concreta di giungere a un destinatario. Verso la fine della sua ultima avventura il protagonista formulerà una domanda senza punto interrogativo: «Io, naufrago dei naufraghi. In quale bottiglia-a-mare infilerò i miei dattiloscritti, a quali onde li affiderò. Non mi sono posto la domanda».

La domanda non posta che il protagonista-autore fa letteralmente cadere nel suo dialogo interiore apre uno scenario che somiglia molto allo strappo nel cielo di carta, allo smascheramento della finzione come nuova finzione, a quella vena di psicologismo labirintico che caratterizza le narrazioni più interessanti del benedettissimo tempo fra modernismo e post-moderno, forse solo l’ultimo movimento di un romanticismo duro a morire. L’autore-personaggio non viene a capo di un possibile pubblico, scomparso (seppure esistente), anzi dissipato, insieme al resto del genere umano e dunque indefettibilmente perduto.

Ci sono alcune parole con cui il protagonista prova sfacciatamente a definire la sua ultima avventura. Questa volta siamo all’inizio del libro, il ragionamento è contemporaneamente sulla realtà della trama (sul vero che ogni autore ci chiede tacitamente di accettare definendo il suo libro romanzo) e sulla storia in quanto fatto tecnico, l’ultima trovata di una fantasia creatrice in dialogo, come in un’intervista: «Quanto alla precisione contabile, devo dire che la mia vita psichica è povera. Anche nel senso della semplicità, della elementarità. Si presta alla ragioneria: le frustrazioni inconsce e i pathos viscerali, i mali oscuri che connoterebbero l’uomo moderno, io, devo confessarlo, non me li trovo. Un mio collega mi accusò di “critica riduttiva”. Andavo ripetendo (“toutes choses sont déjà dites, mais comme personne n’écoute il faut toujours recommencer”) che il monologo interiore, tipo esemplare della letteratura d’oggi, nel quale si esaltano i patemi viscerali, fra ispezioni capillari dell’io e pseudoscontri col non-io, conferma che siamo fermi allo psicologismo del subsentire e del subpensare, che era già artificioso (e noioso) un secolo fa».

Di qui in avanti i luoghi come questo saranno molti, l’autore-protagonista non smetterà più di interrogarsi su l’Evento, cioè la scomparsa del genere umano, avvenuta tra l’altro la notte del 2 giugno, il giorno del suo compleanno, la celebrazione della sua nascita; ebbene non smetterà di pensare all’evento come ciò che contemporaneamente si propone alla fantasia dell’autore e alla desolata realtà del protagonista, finché le due cose non si sovrappongono drammaticamente: «Ricordo numerose persone della mia stessa categoria (genìa) professionale, che in questa mia presente situazione, se fossero stati in grado d’inventarla, avrebbero detto: non si può supporre se non in chiave di paradosso farsesco. In vista di conclusioni socio-satireggianti. Ma è un tale tipo di supposto che sarebbe, non paradossale: idiota».

Morselli si costringe a essere un autore postumo, per consumare il suo stesso tempo presente. Se infatti dietro il personaggio e dietro l’autore non ci fosse null’altro che un inventore arguto ed elegantemente atteggiato, la cosa potrebbe archiviarsi sotto la categoria a volte sospetta dell’intelligenza creativa (un esempio più che recente? Il mondo a venire di Ben Lerner), ma il fatto davvero shockante è che dietro all’autore-personaggio non c’è altro che Guido Morselli, e il suo assurdo spasimo di verità, confermato come tutti sanno il 31 luglio 1973.

Alcune conclusioni provvisorie per non concludere sul più ingiusto e distraente elemento biografico. Quello che rimane provando a ignorare ogni elemento della vita e della morte di Morselli è un libro governato e quasi ossessionato dalle forti geometrie interne, dalle corrispondenze metaforiche (gli animali per esempio, invadenti continuatori della vita) e dallo schietto solipsismo di un testimone fededegno della solitudine, una solitudine che è anche negazione dell’altrui compagnia, esclusione infinita, temperata dal gusto un poco esaltato dell’auto-esclusione; rimane l’esperienza paradossale di un anti-Adamo intellettuale in dialogo con alcuni alter-ego edificanti e inquietanti, come lo psicanalista Karpinsky con cui il protagonista, turbato da allucinazioni sempre più frequenti, rimanda un incontro impossibile nella sognante città di Crisopoli, la città dell’oro, ma forse sarebbe meglio tradurre la città del denaro, dato che l’ultima casa elettiva del narratore è proprio la Borsa Valori: lo scenario, si dice da qualche parte, in cui verranno combattute le guerre future.

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